La Biografia

Alberto Marvelli (1918-1946) è una esemplare figura di laico cattolico. Fin da ragazzo visse con grande impegno la propria fede, alimentandola con un’intensa vita di preghiera e testimoniandola nell’impegno dei propri doveri quotidiani di studio e di lavoro, nella Chiesa, nella società, nella carità verso i poveri.

Nel periodo dell’ultima guerra e del dopo-guerra, nella Rimini martoriata e distrutta dai bombardamenti, fu figura di grande rilievo, non solo per l’integrità di vita, ma anche per l’impegno sociale e politico.

Visse da protagonista i grandi avvenimenti storici dell’epoca, anticipando profeticamente il ruolo e la vocazione del laico cristiano proposti poi dal Concilio Vaticano II.

Alberto, un giovane, amico dei giovani, innamorato della vita, degli uomini e di Dio. Sempre presente fra i ragazzi, i poveri e i sofferenti. Ha vissuto da protagonista coraggioso i difficili anni della guerra.

Altruista negli oratori, tenace nella scuola, intrepido nello sport, impegnato nella scuola, battagliero in politica, che intendeva come servizio. Una vita spesa nell’instancabile e dinamica ricerca della verità e dell’amore.

Di lui, morto a soli 28 anni in un incidente stradale – è in corso il processo di beatificazione – Giovanni Paolo II afferma: “Ha mostrato come, nel mutare dei tempi e delle situazioni, i laici cristiani sappiano dedicarsi senza riserve alla costruzione del Regno di Dio nella famiglia, nel lavoro, nella cultura, nella politica, portando il Vangelo nel cuore della società”.

La riflessione sulla spiritualità che il Concilio Vaticano II ha rinnovato, la ricerca di una spiritualità per l’uomo d’oggi – di una vita vissuta nella docilità allo Spirito del Signore in questo nostro tempo – possono trovare proprio nella vita di Alberto Marvelli una indicazione significativa per fare emerge meglio i connotati di quella che viene chiamata la spiritualità laicale: la spiritualità della incarnazione, della condivisione, del discernimento della testimonianza di un amore che Dio ci ha donato e che vuole rinnovare la mente ed il cuore delle persone, che vuole rinnovare la storia.

La Chiesa lo propone quale modello di “santità nel quotidiano” per i cristiani del terzo millennio.

Maria e Alfredo: i genitori

Maria e Alfredo si conoscono in Ferrara per l’assidua frequenza alla chiesa di S. Spirito. Il 23 gennaio 1916, testimone il conte Giovanni Grosoli, salgono l’altare per consacrare il loro amore al Signore. Alfredo ha 34 anni, Maria 24. E’ un matrimonio semplice, senza sfarzo: è tempo di guerra; la sposa, rinunciando al tradizionale abito bianco, indossa un semplice abito da viaggio.

Alfredo viene nominato direttore della Banca Popolare del Polesine in Rovigo; va ad abitare in un appartamento sopra la Banca con la sua sposa. Il 25 novembre 1916 nasce il primogenito Adolfo.

La guerra intento incalza: le truppe austriache e tedesche, il 24 ottobre 1917, sferrano una massiccia offensiva sul fronte italiano. L’esercito italiano in rotta si ritira sulla linea del Piave. Rovigo non è più città sicura per l’avvicinarsi del fronte e per il pericolo dei bombardamenti. Alfredo invia la moglie Maria e il figlioletto Adolfo a Ferrara, presso la famiglia Mayr.

Il 21 marzo 1918 viene alla luce a Ferrara il secondogenito Alberto.

Quando cessa il pericolo della guerra la famiglia Marvelli si riunisce a Rovigo. Qui nascono Carlo, il 2 settembre 1919, e Raffaello, il 27 giugno 1922.

Dopo vari spostamenti a causa del lavoro di Alfredo, nascono a Rimini Giorgio, il 5 dicembre 1928 e, Geltrude ( Gede ), il 2 agosto 1932.

 

Un collega di lavoro definisce il signor Alfredo “un cristiano a tutta prova”, per la mite coerenza con cui sapeva affrontare tutte le situazioni. I figli attestano che durante la persecuzione fascista “non lo avevano mai sentito imprecare contro quelli che gli avevano fatto del male e che avevano adoperato ogni mezzo per togliergli il lavoro, e l’avevano messo fuori, benché avesse tanti figli !”. “ Oltre al lavoro e alla cura della numerosa famiglia trovava il tempo per altri impegni ecclesiali. Fu, tra l’altro, dirigente degli Uomini Cattolici e presidente della Conferenza di S. Vincenzo della sua parrocchia.


Alberto ricorda il babbo, a otto anni dalla morte, scrivendo nel suo Diario: “Mai dimenticherò la sua vita esemplare, trascorsa serenamente e santamente anche nei momenti dolorosi di maggiori preoccupazioni. Fu cristiano nel senso completo della parola, senza mezze misure, senza rispetti umani, senza ostentazione. Sincero, sorridente, sempre in grazia, sereno, ecco la sua vita. Ha seguito sempre la voce saggia della coscienza e non ha esitato a rinunciare ad onori e ricchezze quando il conseguirli poteva appannare solamente la limpida trasparenza dell’anima”.

Anche Maria era esemplare nella carità; ricca di doti non comuni di educatrice, saggia, intelligente, stimatissima per le sue virtù. Si dedicava all’apostolato in parrocchia e in diocesi. Insegnava catechismo all’oratorio salesiano; frequentava il gruppo delle Donne di Azione Cattolica; lavorava con le Dame di Carità; collaborava all’associazione per la Protezione della Giovane. Il prof. Giorgio Torri, che la ebbe come catechista, afferma: “Era capace di studiare la psicologia di noi ragazzi e di saperci guidare con consigli saggi ed illuminati. Ci seguiva sempre e tutti nei giochi e nelle preghiere. Era un po’ la mamma di tutti”.

Il 12 settembre 1939, giorno dedicato al nome di Maria SS, Alberto scrive sul Diario un elogio della mamma, dimostrando un affetto pieno di ammirazione: “Essa è il nostro angelo consolatore, è la nostra consigliera più preziosa, è la mamma affettuosa e santa che vive solo per i figli, solo alla loro felicità pensa. Con quale bontà ci rimprovera i ritardi e le mancanze, con quanta affettuosa severità sorveglia la nostra vita spirituale e materiale. Sull’esempio di Cristo essa è tutto a tutti; e con i familiari e con gli estranei e con i poveri. Non uno che ha bussato alla nostra porta è stato rimandato a mani vuote. Anche quando non può e cerca di fare economia, per i poveri trova sempre qualcosa. Sempre serena e col sorriso pronto conforta e consola chi a lei ricorre. Ama la verità, la giustizia, la lealtà; non può soffrire perciò l’ipocrisia, l’ingiustizia, le bugie e per questo è a volte sdegnata. Essa dà senza volere ringraziamenti e gratitudine, perché li aspetta da Dio. La sua forza nelle prove dolorose che la colpirono, la sua risolutezza nel risolvere le situazioni, la sua serenità continua, la giusta severità e carità nel correggere, il carattere franco, leale e semplice le attirano la simpatia, l’affetto e l’ammirazione di quanti l’avvicinano”.

Casa Marvelli era un centro di carità. Molti bussavano alla sua porta e nessuno tornava a mani vuote. Alfredo e Maria spendevano in opere di carità molta parte delle loro entrate. Per questa loro esemplarità oltre che per l’attenzione sollecita alla vita della famiglia, si rivelano educatori capaci di incidere profondamente sulle coscienze dei figli. Alberto e i fratelli vivono e vengono educati in questo clima sereno e cristiano, arricchito dall’amore scambievole, dalla preghiera, dalla carità.

All’oratorio Salesiano

La morte del babbo, avvenuta improvvisamente il 7 marzo 1933, mette a dura prova la fede e l’equilibrio affettivo di Alberto, ma è anche un momento di maturazione: sarà Alberto a sostenere la madre e i fratelli, diventando quasi un secondo padre per tutta la famiglia.

Nella sua parrocchia; Maria Ausiliatrice, tenuta dai Salesiani, esiste un fiorente oratorio, frequentato da quasi tutti i ragazzi della zona.

Alberto si iscrive subito alla Gioventù Cattolica Italiana del circolo “D. Bosco” e inizia a frequentare assiduamente l’oratorio. All’azione formatrice della famiglia si aggiunge ora quella dell’oratorio, che avrà un grande influsso sulla sua vita spirituale e apostolica. Nell’ambiente salesiano si vive un’atmosfera di grande fervore religioso e di profonda spiritualità. I Salesiani vigilano sui ragazzi, animano i giochi, correggono i difetti con bontà, prevengono disordini e litigi, cercano di creare nell’ambiente dell’oratorio una vita serena e gioiosa, ricca di attività. Il principio pedagogico è: “Mettere il giovane nella morale impossibilità di peccare”.

La matrice della formazione umana, apostolica, spirituale di Alberto è salesiana. I Salesiani capiscono subito di che stoffa è fatto; lo impegnano, gli danno fiducia, lo guidano sulla via della crescita spirituale. A quindici anni è già delegato aspiranti e generoso animatore dell’oratorio. Lavora col massimo impegno in mezzo ai ragazzi, animandoli entro una giusta visione del gioco e del divertimento, cercando di offrire loro molte possibilità di incontro.

Sempre con l’obiettivo di coinvolgere il più possibile i giovani, di far vivere i momenti più importanti della loro crescita in comunità, aveva anche promosso la colazione dopo la Messa domenicale; uscendo dalla Chiesa li aspettava con la cesta colma di panini imbottiti.

Alberto prega con raccoglimento, fa catechismo con convinzione, manifesta zelo, carità, serenità, purezza. Emerge fra tutti i buoni giovani dell’oratorio per le sue virtù non comuni e per l’apparente facilità e naturalezza con cui fa anche le cose più difficili.

Fra i giovani dell’oratorio circola la Vita del giovanetto Domenico Savio scritta da don Bosco. Quando il 9 luglio 1933 Pio XI proclama l’eroicità delle virtù del venerabile Domenico Savio, il fatto suscita vasta eco nell’ambiente salesiano e influisce profondamente sull’animo di Alberto adolescente. Ne troviamo traccia nel suo comportamento e nel suo Diario. Scrive l’8 dicembre 1934 “Ho consacrato il mio cuore a Maria Immacolata” e a Pasqua del 1935 “Gesù, piuttosto morire che peccare”; a questa esclamazione fa seguire un dettagliato programma di vita.

Così aveva fatto Domenico Savio. Da lui mutuò certamente anche l’amore per l’eucarestia e lo stile apostolico del servizio e del sorriso

Un bel profilo sintetico di Alberto adolescente. “Era un ragazzo straordinario: intelligente, sveglio, dotato di buona memoria, pacifico anche se vivace, pieno di salute, forte di carattere, fermo, deciso, volitivo, generoso, sereno, animato da un profondo senso di responsabilità e giustizia, riflessivo anche se impulsivo per natura, metodico e preciso; grazie alle sue qualità umane aveva un forte ascendente sui compagni; ma era stimato soprattutto per le sue virtù, per la finezza dei modi, lo spirito di tolleranza, l’equilibrio, la fedeltà alle promesse, l’entusiasmo che metteva nell’apostolato”.

Al Liceo Classico

Nell’anno scolastico 1933-34, inizia a frequentare il liceo classico di Rimini, non ancora statale, dopo aver superato brillantemente l’esame di ammissione, presso il liceo classico statale di Cesena. Studia con metodo e disciplina; la sua applicazione è notevole; prende lo studio con serietà e responsabilità. E’ sempre fra i migliori della classe, pur senza essere assolutamente il primo. La sua insegnante di lettere lo ricorda “non brillante nell’esposizione, ma sempre maturo di pensiero e sicuro di quanto diceva e studiava”.

Ha una spiccata inclinazione per le scienze positive, ma ama anche la poesia e la letteratura. Ha ottimi voti in tutte le materie, ma nelle scienze esatte ha sempre i voti più alti.

Nella classe, composta di dodici alunni, emerge per le sue qualità morali: la disponibilità ad aiutare i compagni e la lealtà verso gli insegnanti. Le compagne di scuola dicono che con Alberto si sta sempre bene, nei divertimenti come nello studio, perché c’è sempre scambievole rispetto. In lui amano la virtù, che si manifesta non a parole, ma con la presenza, con lo slancio sincero col quale si presta a fare favori a tutti. Passava volentieri la traduzione di latino o greco raccomandando soltanto: “Non copiarla! confrontala dopo aver tradotto anche tu”. Quando qualche compagno debole in matematica veniva interrogato, si metteva nei primi banchi per incoraggiare e dare qualche suggerimento. Anche verso i compagni meno studiosi e più indisciplinati si mostrava rispettoso e disponibile, pur non considerandosi uno di loro, perché non partecipava mai alle loro “imprese”.

Una volta, in terza liceo, quando tutta la sezione maschile ebbe una nota disciplinare collettiva, anche Alberto, pur essendo estraneo al fatto, venne punito. Irritato da questa ingiustizia, convinse i veri colpevoli a presentarsi spontaneamente al Preside, per chiedergli scusa.

Fa parte di questa banda di “scapestratelli” – come lui stesso li definisce – anche il giovane Fellini, il futuro grande regista, che è di qualche anno più giovane di Alberto. In una intervista concessa al giornalista Renzo Allegri, per l’ “Eco di Bergamo”, nell’ottobre 1970, dopo tanti anni, Fellini ricorda ancora la figura di Alberto: “Dolce, biondo, esemplare”. I due sono ritratti insieme in una foto scolastica di gruppo del 1936. Alberto in alto, in prima fila, con l’abito bianco, dal volto radioso, aperto; Fellini in seconda fila, a lato di Alberto, seminascosto, quasi timido e ritroso, un po’ come tutti gli artisti. In un cassetto della scrivania del regista, dopo la morte, furono ritrovate, accanto a questa foto, alcune immagini di Alberto Marvelli, che lui aveva sempre stimato molto, interessandosi da vicino al suo cammino verso la beatificazione.

Alberto segue le lezioni con molto interesse e impegno, per cui è sempre in grado di dialogare con gli insegnanti; e se qualche professore pronuncia qualche inesattezza sul pensiero cristiano, alla presenza della classe, con “bontà coraggiosa esorta l’insegnante a precisare l’espressione”. Questa sua lealtà e libertà di spirito è molto apprezzata e gli vale l’ammirazione anche degli insegnanti.

Scrive il Prof. Carlo Alberto Balducci “Ne subivo il fascino e ne provavo, professore, pur giovane, una certa soggezione: lo sentivo maestro di vita, pur nel comportamento usuale e comune di uno studente di liceo. Facevamo parte, io come dirigente, lui come socio, di una associazione cattolica studentesca. Incontri di studio, di meditazione, di ricreazione si svolgevano in una saletta della parrocchia dei Servi. E là diventavamo due amici che non avevano tra loro la distanza che corre tra cattedra e banco, che, anche allora, cercavo con lui e con gli altri di rendere più breve possibile. Ma ci fu in me un periodo di crisi – anche gli adulti le subiscono, e quanto dolorose! non sono soltanto un possesso esclusivo e privilegiato dei giovani – che mi tenne lontano dalla vita dell’associazione; Alberto ne soffriva e io lo sapevo. Ma un giorno, facendo uno sforzo su se stesso, perché c’era pur da affrontare colui che era il suo insegnante, senza alzare il tono, ma rosso e un po’ concitato, mi aggredì dicendomi: “Non ti accorgi che la tua prolungata assenza da noi dà a tutti un cattivo esempio ?”; Così, pressappoco, disse, e fu per me, suo professore, una grande lezione di vita, uno stimolo a ripensamenti e superamenti di cui gli fui e gli sono immensamente grato. Trovò le parole e il tono giusto, tentò di riedificare quello che stava forse crollando, sentì che un fratello aveva bisogno di quella certa spinta, anche se tutto questo gli costava un sacrificio, era un dovere di carità e verità che bisognava pur compiere per la costruzione del Regno”.

Dalla voce del compagno di scuola Andrea Grassi
“Ricordo che eravamo in gita scolastica a Firenze e che in tale circostanza era stata celebrata la S. Messa per tutti i gitanti; alla fine del rito uno della comitiva uscì in audaci e volgari espressioni di scherno scimmiottando gli atti e i movimenti del celebrante. Mentre noi tacevamo allibiti, Alberto intervenne deciso, redarguì energicamente il compagno, di tre anni più anziano di lui, e lo costrinse a desistere dall’ignobile linguaggio”.

Il suo diario

Oltre alle lettere, circa una settantina, lo scritto più importante che possediamo è il suo Diario, pubblicato dopo la sua morte. L’aveva iniziato a quindici anni nel 1933, poco dopo la morte del padre e ad esso affidava pensieri, riflessioni, preghiere. E’ per noi preziosissima testimonianza della sua vita interiore, della profondità del suo rapporto con Dio. E’ composto di 57 pagine, scritte su una comune agenda. L’andamento è discontinuo: Alberto scrive a scadenze lunghe e quando ne sente la necessità. Sette pagine nel periodo dell’adolescenza; venti nel 1938, quando ha venti anni; ventisei fino al 1942. Poi una lunga pausa di quattro anni; le ultime quattro pagine sono del 23 agosto 1946, a due mesi dalla morte. Nel Diario annota i sentimenti, i propositi, le aspirazioni che animavano e ispiravano la sua vita di laico cristiano. Esprime con semplicità e spontaneità quelli che sono stati nel corso della sua esistenza i motivi più profondi, che hanno improntato la sua vita spirituale, sia nell’intimità del rapporto con Dio, sia nel rapporto con gli altri nell’impegno della attività apostolica. Il Diario è la storia della sua vita interiore, del suo cammino spirituale, della sua esperienza di Dio, della sua preghiera: “la storia di un’anima è la storia della sua vita di preghiera”.

“Nel Diario non ci sono note riguardanti le attività, I’apostolato; cenni fuggevoli agli studi; tutta l’attenzione, in queste fitte paginette, è rivolta al Signore. Sono pagine di colloquio intimo, di adorazione intensa. Il linguaggio è ricco di sfumature. L’anima si accosta sempre più al Signore, e lo scambio tra la grazia e l’anima è costante e crescente”.

Incontri, date, persone, avvenimenti storici sono riportati solo per farli oggetto di meditazione, di riflessione alla luce della parola di Dio, di preghiera.

Parla di se stesso con sincerità e spontaneità, ogni qualvolta sente il bisogno di “fare il punto” sul suo cammino. E’ un esame dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti manifestati dinanzi al Signore, nel nascondimento e nel silenzio della propria coscienza, che rivela una lucida capacità di analisi della propria interiorità, sempre in costante confronto con la volontà di Dio. Per questo il Diario può definirsi una “meditazione orante”, perché anche quando Alberto parla di se stesso, il centro della sua riflessione è sempre Dio. Alberto scrive per un impulso interiore, senza pretese letterarie; si esprime dunque con lo stile e il lessico caratteristico della spiritualità del suo tempo. Ma, come succede per tutto ciò che è autentico, è facile andare oltre la lettera per cogliere la “modernità” della sua esperienza: la semplice e forte disponibilità a lasciarsi plasmare dalla grazia, la fede che diventa operante nella carità.

Nelle ultime pagine del Diario, dopo una sosta di cinque anni, leggiamo: ”Riprendo in mano questo Diario dopo cinque anni che è rimasto in un cassetto fra i libri. Mi era tanto caro negli anni dell’Università; mi ci rifugiavo spesso quando mi sentivo solo, e addolorato o felice; mi sembrava allora quasi una necessità: ed invece sono passati gli anni, molti, senza che aggiungessi una parola”.

In quegli anni di silenzio sul Diario, Alberto aveva scritto non con la penna, ma con la sua testimonianza. Furono gli anni più intensi del suo impegno spirituale, sociale e politico.

Voglio scrivere un piccolo schema di quello che dovrà essere la mia vita spirituale. Alla mattina orazioni, e, se possibile, un po’ di meditazione. Una visita giornaliera in chiesa, e il più possibile frequentare i Sacramenti. Oh, se mi riuscisse di comunicarmi tutti i giorni ! Recitare ogni giorno il santo Rosario. Non cercare in nessun modo occasioni di male. Alla sera orazioni, meditazione, esame di coscienza. Vincere i difetti più grossi: la pigrizia, la gola, l’impazienza, la curiosità e tanti altri. Invocare l’aiuto di Gesù in ogni momento difficile. Se non dovessi mantenerlo infliggermi anche qualche pena fisica.

Un cuore puro

La conquista della “purezza” non fu facile, ma per raggiungerla, sempre attento e vigilante, Alberto seppe mettere in atto tutti i mezzi naturali e soprannaturali di cui disponeva.

“Vivere in purezza. Come si apprezza questa virtù in mezzo a tanto fango! Ma è difficile conquistarla? E’ difficile per chi crede riuscirci coi mezzi umani, ma per chi si alimenta alle sorgenti inesauribili della grazia e dell’amore, sorretto dall’Eucarestia, dalla meditazione e dalla volontà, essa è raggiungibile”. Alberto desiderò la purezza come mezzo di comunione con Dio, per un bisogno di coerenza con se stesso e di radicalità evangelica. Ne parla spesso nel suo Diario. La purezza non è soltanto frutto di lotta, di conquista, di dominio delle passioni e fuga dai pericoli, ma è sentita come un nuovo modo di vivere, di sentire, in sintonia col creato e le creature: è distacco, è umiltà, è desiderio del cielo, è contemplazione.

La purezza è luce, è gioia; irradia il cuore.

La purezza diventa fondamento di una visione nuova, serena del mondo; ridona la semplicità dello sguardo sulla creazione e porta a Dio.

Un animo puro si apre alla contemplazione di Dio; gusta l’intima unione con Lui; adora l’Eucarestia. “Ma soprattutto un cuore puro gusta le gioie dell’anima, dell’unione intima e continua di Dio, della contemplazione delle sue sembianze sotto forma del SS Sacramento. Che mondo nuovo, formato di impressioni infinite per dolcezza e potenza, ma al medesimo tempo così certe della loro origine, mi si è aperto contemplando Gesù sacramentato!”.

La contemplazione di Dio gli chiede una sempre maggiore purezza, luce di penetrazione nel mistero, fedeltà alle ispirazioni dello Spirito. “Dalla contemplazione del SS Sacramento sempre più necessaria mi appare la purezza completa di noi stessi. Che io non diventi un impuro, Gesù!”.

La purezza, vissuta in maniera così decisa e al tempo stesso così gioiosa, non poteva non trasparire dal suo volto e da tutta la sua persona. La purezza non è virtù nascosta, ma ben visibile. E molti testimoni hanno “visto” la sua purezza; Alberto ne è stato un testimone limpido e sereno.

Nessun complesso nel rapporto con le ragazze; le trattava con quella interiore libertà di spirito, che è segno di castità perfetta.

La lotta per la purezza non aveva spento o deformato la sua sensibilità né la sua capacità di amare una donna. Anzi l’aveva sublimata, l’aveva portato a cogliere la vera essenza dell’amore. Quando scriverà alla ragazza che vorrebbe sua sposa, si esprimerà con parole semplici, ma ricche di un sentimento non comune: “…l’ho sentito di nuovo battere il mio cuore per te, dopo che ti ho rivista sempre bella e con gli occhi un po’ mesti, ma tanto buoni”.

“…Io mi rivolgo a Te, Padre di misericordia, Agnello di Dio, perché sappia mantenere il mio cuore puro ,candido, splendente. Che la luce divina e soprannaturale irradi il mio cuore, lo avvolga nel suo alone splendente, lo circondi col suo profumo celeste, lo irrori con l’acqua viva e la rugiada vivificante, lo protegga dalle tenebre del mondo e del peccato, lo difenda dalle insidie del demonio, lo sospinga alle più eroiche virtù”.

 

“…dal suo contegno disinvolto e correttissimo – racconta Giorgio Torri – e dalla espressione angelica del suo volto e del suo sguardo, appariva quanto fosse autentica la sua purezza di cuore e di condotta”. “Da tutto il suo modo di comportarsi, pur essendo aperto e affabile con tutti, posso dire che traspariva la delicatezza del suo animo”. “Si, è stato Marvelli – dirà l’amico Silverio Colla – che ha grandemente influito nella mia formazione, è stato lui che mi ha dato grande coraggio nella lotta contro l’impurità”. Altre testimonianze sono esplicite: ” Dava l’impressione di un giovane forte e casto. Sapeva trattare con i giovani e le signorine in maniera cordiale e, al tempo stesso, riservato, pur partecipando normalmente alla vita degli altri.

 

Amava lo Sport

Alberto aveva un fisico forte, robusto, sano. Perciò esprimeva nelle attività sportive tutta la sua naturale esuberanza. Amava tutte le discipline: il tennis, la pallavolo, l’atletica, il ciclismo, il calcio, il nuoto, la vela, praticata “con un vecchio moscone arrangiato in famiglia”.

Spesso nel periodo estivo, tornando a casa dalla scuola o dal lavoro, pregava la mamma di posticipare il pranzo per potersi recare a spiaggia e fare una nuotata o una remata col moscone. “Le eccezionali qualità psicofisiche potevano farlo emergere in qualsiasi disciplina agonistica, ma lo sport per lui era solo un mezzo per affinare certe qualità del carattere, per scuotere la pigrizia, per fortificare la personalità”. Perciò univa all’amore per lo sport una grande austerità: fumava raramente, moderato al massimo nei cibi e nelle bevande: non beveva né vino, né liquori. In quaresima usava scarsamente del cibo per osservare la legge del digiuno. Viveva lo sport non fine a se stesso, ma come “mezzo di ascesa a Dio”, come “igiene del corpo e dell’anima”.

Per questo – come ricorda Bruno Maggiori – visitando la sede dei giovani di Azione Cattolica della parrocchia del Duomo, si mostrò compiaciuto nel vedere che su una parete campeggiava il motto Mens sana in corpore sano. Elogiò i giovani che l’avevano scritto e li esortò a vivere secondo l’antica massima: curando lo spirito senza trascurare la salute fisica.

Lo sport di gran lunga più praticato era il ciclismo, e non solo per passione.

Se un pittore dovesse fare un ritratto di Alberto, dovrebbe dipingerlo in bicicletta. Per sport, per necessità, per apostolato si affidava sempre alle due ruote. In bicicletta andava fino a Bologna, Arezzo, Firenze, nel Bergamasco. Percorreva chilometri e chilometri, spinto dall’amicizia, dall’apostolato, dalla passione per il ciclismo. Era capace di percorrere più di cento chilometri in un solo giorno: ce ne fa fede la sua agenda, dove nota minuziosamente i suoi viaggi. Durante l’estate organizzava gite in bicicletta con gli amici dell’oratorio salesiano: cercava di sottrarli all’ozio della vita di spiaggia.

Nell’agosto del 1935 Alberto passa un mese in montagna, ad Ortisei, in Val Gardena. E’ la prima volta che prende contatto con la bellezza dei monti dolomitici e ne rimane entusiasta. Di fronte alla bellezza delle montagne, alla maestà delle vette, alle cascate che sgorgano dalla roccia, ai fiori che colorano i prati Alberto rivela una straordinaria sensibilità. Sa vibrare di intensa commozione di fronte a tutto ciò che è bello e che gli ispira sentimenti di lode e di santità. Il suo occhio puro ammira le opere di Dio e, al di là del visibile, contempIa la presenza amorosa e creatrice di Dio. Guarda la roccia viva che pare muoversi davanti ai suoi occhi; ascolta nel silenzio il linguaggio degli uccelli, dei boschi, dei fiori.”

Dalla contemplazione della montagna sale alla meditazione dell’Assoluto; l’amore del suo cuore tocca le sublimi altezze del desiderio di Dio e del Paradiso.

“La montagna: se io non amassi Dio, credo che arriverei ad amarLo stando in montagna. Che pace, che serenità, che bellezza: tutto ci parla di Dio, dalle maestose vette, dai prati verdi, dall’umile fiorellino celeste, dal cielo tempestato di stelle alla cascatella che esce gorgogliante dalla roccia. E’ impossibile non riconoscere l’opera del Creatore. Solo un Dio infinitamente grande e misericordioso poteva creare cose tanto belle. L’anima è rapita in contemplazione, dimentica di essere in terra, pregusta il paradiso. L’anima si abitua a stare più vicina a Dio e non vorrebbe più staccarsene. Ritornando al piano si lascia qualcosa lassù e si soffre quasi, si sente il desiderio di salire ancora, così come è fortissima l’aspirazione a salire al cielo, in paradiso. Che gioia in quel giorno! la bramo e l’affretto, benché per la mia miseria e malvagità non ne sia degno”.

di Ado Ricci

“Partimmo in bicicletta alle tre del mattino dalla chiesa dei Salesiani con gli zaini pieni di panini sulle spalle. Arrivati a La Verna, stanchi morti, alle quattro e mezzo del pomeriggio i ciclisti vengono accolti dai frati con una minestra calda e un po’ di affettato. L’indomani di buon’ora la comitiva parte per l’Eremo di Camaldoli, dove Don Gorgoglione celebra la Messa. Al termine un po’ di conversazione, poi il gruppo riprende la strada di casa per essere a Rimini a sera inoltrata”.

 

All’Università

Alberto avrebbe desiderato frequentare l’Accademia navale di Livorno, ma non fu accettato per una lieve forma di astigmatismo.

Si iscrive allora all’Università di Bologna alla Facoltà di ingegneria meccanica. “Non sono andato poi in nessuna Accademia. ll Signore ha disposto diversamente”.

Subito Alberto si iscrisse alla FUCI e iniziò a frequentare Il circolo fucino “Marcello Malpighi”, che da qualche tempo era rinato a nuova vita e stava svolgendo, tra molti contrasti esterni, un eccellente lavoro di apostolato nell’Università, sia sul piano culturale, che religioso. Aveva un direttivo formato da ottimi membri: Delfini, Carlo Rossini, Benigno Zaccagnini, Maria Strassera, Giuseppe Gobello, Giovanni Bersani e teneva costanti contatti con Igino Righetti ed Aldo Moro. L’esperienza fucina era vissuta con entusiasmo e serietà: a volte bastavano pochi incontri per trasformare una persona, sia sul piano spirituale che intellettuale. Alberto ne assimilò lo spirito ritraendone nuovi stimoli di ascesa spirituale e di formazione culturale. Nella FUCI veniva curata una religiosità molto aperta, adatta ad un ambiente di alta cultura; si dava largo spazio alla meditazione della Sacra Scrittura e alla recita delle ore canoniche, anticipando tendenze che solo dopo il Concilio Vaticano II° si sarebbero largamente diffuse nella Chiesa.

“Dobbiamo santificare il nostro impegno universitario fino a farne una forza capace di cambiare la vita del Paese”. Era l’impegno che Righetti dava allora ai fucini.

L’impulso culturale e spirituale dato da Righetti, assieme all’assistente nazionale, mons. Giovanni Montini, rimase operante e animò la FUCI bolognese, e di riflesso il gruppo dei riminesi, anche quando Righetti passò ai Laureati Cattolici.

Erano gli anni in cui la cultura italiana si apriva alla filosofia di J. Maritain. Non solo si diffondevano le sue opere, ma il suo pensiero dava luogo a dibattiti ed approfondimenti, soprattutto nelle riviste e nei congressi della FUCI, dove si dibattevano temi di sociologia e di religione “recuperando quell’armonia spesso trascurata da altre associazioni cattoliche, fra vita spirituale e ricerca culturale, affidando ai tempi lunghi la realizzazione di una presenza sociale effettiva e determinante”.

Alberto visse questo periodo culturale e spirituale con intensa partecipazione. Subì l’influsso, nella sua formazione cristiana e politica, del pensiero maritainiano. Lesse più volte “Umanesimo integrale“; la prima volta all’università e a Torino negli anni Quaranta: Lo postillò con osservazioni sue e sottolineando le frasi più significative. In margine ad un capitolo, troviamo scritti alcuni pensieri sull’atto di fede e sull’incidenza della fede nella vita.

Chi lo avvicinava vedeva in lui non soltanto l’amico di studio, cordiale, disponibile e gentile, o il giovane impegnato apostolicamente. Alberto lasciava trasparire un mondo interiore che colpiva e affascinava.

Presso i compagni di università godeva di una stima universale per le sue doti umane e del rispetto di tutti per la sincerità della sua fede. Era un ragazzo straordinario, sano in tutti i sensi, sempre ottimista, ma anche immerso nella vita del suo tempo. “Era un cristiano perfetto – dirà una sua compagna – aveva una forte carica umana, modesto, umile, riservato e rispettoso”.

Negli anni dell’Università, durante l’estate Alberto lavora. Le scarse risorse economiche della famiglia, dopo la morte del babbo, non gli permettono di essere mantenuto agli studi. Come molti altri studenti, lavora negli stabilimenti saccariferi della zona, durante il periodo della raccolta della barbabietola da zucchero.. Nel 1940, l’anno prima della laurea, lavora per tre mesi, dal 24 agosto al 30 novembre, alla Fonderia Bagnagatti di Cinisello Balsamo a dieci chilometri da Milano; gli serve per prendere contatto con il mondo industriale e per approfondire alcuni aspetti della tesi di laurea, che sta preparando.

Il 1941 è l’anno più pesante per Alberto universitario; ai primi di febbraio dà due esami ed entro marzo ne dà altri cinque: sono gli ultimi prima della laurea, che prepara con cura, visitando stabilimenti di meccanica a Ferrara e a Modena. Il 30 giugno, dopo 5 anni di università, si laurea con 90/100.

di Dante Benazzi
“Avevamo occasione di parlare di problemi di carattere formativo e sempre rimanevo profondamente impressionato dalla sua alta statura morale e spirituale; lasciava intravedere una profonda vita di pietà, di preghiera e di conoscenza della dottrina cattolica. Una profondità interiore fuori del comune. La sua presenza imponeva rispetto e nelle conversazioni che nell’ambiente goliardico facilmente sconfinavano nello scurrile, bastava un suo cenno perché il discorso prendesse altri indirizzi”.

Aspirazione alla santità

L’aspirazione profonda del suo cuore è la santità: “Non per essere solo migliore di altri, non per guardare con disprezzo i peccatori, ma solo per la Tua maggior gloria, per essere l’umile servo delle anime, onde portarle a Te, come S. Francesco, giullare di Dio, sotto la protezione della Vergine madre”. Alberto sa che la santità è dono di Dio, ma richiede tutta la collaborazione dell’uomo.

Per quanto sta in lui si impegna in un programma di vita rigoroso e umile al tempo stesso: “Il silenzio è il mezzo ottimo per santificarsi, per non dire sciocchezze e commettere meno peccati, per abbassare l’orgoglio, esercitare l’umiltà e la pazienza ed imparare a conversare con Dio. Devo assolutamente vincere i miei scatti di impazienza, ed usare invece con tutti una amorevole pazienza ed una carità ardente.

Prima di agire devo pensare a quello che faccio e devo altresì considerare come io mi sarei comportato trovandomi nella tale occasione. Devo assolutamente perdere il vizio di giudicare il prossimo, se non voglio poi essere giudicato da Dio. In casi di necessità ricordarsi della carità cristiana, della misericordia di Dio, delle condizioni particolari in cui il prossimo viene a trovarsi. ‘Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te’. Parole divinamente sagge, che evitano tante occasioni di litigio.

Frenare la mia fantasia e tenerla costantemente alla realtà. Allontanare con una invocazione al S. Cuore di Gesù e alla Vergine ogni pensiero impuro o che solo lontanamente offuscasse il candore dell’anima. Frenare gli impulsi del cuore ed il sentimentalismo esagerato. Avere davanti alla mente sempre il pensiero di Gesù in Croce e l’esempio della sua vita.

Studiare con continuità ed assiduità ciò che devo, e con regolarità e metodo. Ampliare la mia cultura ogni qualvolta ne capiti l’occasione. Abbassare la superbia e l’orgoglio, praticare l’umiltà del Signore e dei Santi. Allontanare da me l’ipocrisia, il falso zelo, la menzogna, ma affermare sempre la verità, anche nei giochi e negli scherzi! Mantenere la parola a qualunque costo, anche nelle piccole cose. Non promettere senza mantenere, non ingannare, neppure per scherzo, alcuno.

Aiutare i poveri e i derelitti il più possibile, materialmente e spiritualmente. La carità sia un altro cardine del programma di vita. Combattere la curiosità inutile che non porta alcun vantaggio. Moderare le manifestazioni esterne di gioia e di disappunto. Accettare il dolore come inviato dal Signore per provare la nostra fede e per affinare le nostre virtù morali. Essere moderato nel mangiare non solamente quando sono solo, ma pure a casa o presso amici e parenti. Esercitare la volontà fin nelle piccole cose e nei minimi atti, affinché sappia essere volitiva anche negli atti importanti.

Alzarmi alla mattina il più presto possibile e all’ora che ho stabilito. Fare ogni mattina mezz’ora di meditazione senza mai tralasciarla, salvo casi imprevedibili. Mezz’ora al giorno di lettura spirituale e possibilmente anche più. Ascoltare ogni mattina la S. Messa ed accostarmi ai SS. Sacramenti, senza defezione, salvo anche qui motivi di forza maggiore. Confessarmi usualmente una volta la settimana e recarmi dal direttore spirituale molto spesso. Recitare giornalmente il S. Rosario e dire l’Angelus al suono del mezzogiorno e dell’Ave Maria. Questo in breve il programma della mia vita, a cui voglio attenermi da oggi, 22 settembre 1938. Prego il Signore con tutta l’anima che mi voglia aiutare a metterlo in pratica continuamente. Se dovessi mancare, Dio voglia che mi riprenda subito onde poter migliorare e dimostrare in tal modo a Dio la mia riconoscenza per quanto Egli fa per me continuamente, per il bene che mi ha voluto, per il dolore che ha sofferto per me. Morire ma non peccare”.

E’ un programma serio, impegnativo e dettagliato; non potrebbe stenderlo, se già non lo vivesse da molto tempo. E’ un programma che sintetizza e rafforza tutto ciò che sta già facendo. Più che un proposito per il futuro è un ribadire a se stesso ciò che sta già facendo.

Nel periodo universitario, Alberto fa lettura spirituale sulle encicliche e sui discorsi del Papa, che legge su “L’Osservatore Romano” e su “L’Avvenire d’Italia”, al quale è abbonato. I testi della meditazione erano quelli in uso nel suo tempo: “L’anima di ogni apostolato” dello Chautard; “L’imitazione di Cristo”, i libri di Dom Columba Marmion: “Cristo vita dell’anima” e “ Cristo nei suoi misteri”. Sottolineava i pensieri più salienti, che gli fornivano le tracce di meditazione. “Il primo libro sottolineato è ‘La vita interiore’ del Tissot. Scorrendo quelle pagine e soffermandosi alle righe segnate, si può meglio comprendere lo svolgimento della vita interiore di Alberto. Sono molto sottolineati i capitoli che trattano dell’abnegazione: ‘E’ vera ogni mortificazione che spezza ciò che è da spezzare e fortifica ciò che è da fortificare’ ” .

UNA PREGHIERA DI ALBERTO
O Gesù, che leggi nel mio cuore, che vedi gli sforzi per amarti, che cerco di ricevere tutti i giorni in me, affinché Tu con la tua santa e misericordiosa presenza purifichi e santifichi l’anima mia, aiuta questo povero peccatore, che si prostra ai tuoi piedi a chiederti perdono, infondi in me pensieri puri santi, gentili, pazienti, visitami pure con la Croce, Gesù, che sono lieto di aiutarti a portarla per il bene del prossimo e della mia povera anima. Fa’ che non cada in tentazione E che mantenga le promesse, che continuamente rinnovo ai tuoi piedi. Solo col tuo aiuto E con quello della Vergine e dei santi tutti Potrò tendere verso quelle mete luminose Che qualche volta intravedo Ma che sono così lontane, lontane. Voglio, o Gesù, farmi santo. Aiutami e soccorrimi Tu.

 

Azione Cattolica

Se il primo impatto formativo, fuori della famiglia, fu con l’oratorio salesiano, è nell’Azione Cattolica, quale la pensò e la volle Pio XI negli anni del suo pontificato, che Alberto realizza la maturazione del suo cammino spirituale. Definendola come “la partecipazione dei laici cattolici all’apostolato gerarchico, per la difesa dei principi religiosi e morali, per lo sviluppo di una benefica e sana azione sociale, sotto la guida della gerarchia ecclesiastica, al di fuori e al di sopra dei partiti politici, nell’intento di restaurare la vita cattolica nella famiglia e nella società”, il Papa non si limita a seguire da vicino lo sviluppo organizzativo dell’Azione Cattolica e a difenderla con tutte le forze contro gli attacchi del fascismo, ma si adopera ad aprire la associazione alla dimensione del soprannaturale e a indicare ai dirigenti e ai soci una linea di condotta, una sorta di via dell’Azione Cattolica alla santità.

Alberto amò intensamente il papa Pio XI, che aveva così fortemente affermato e difeso l’Azione Cattolica nella sua impostazione formativa: fu il Papa della sua giovinezza, fu la guida della sua vita; ai suoi insegnamenti sempre si attenne con atteggiamento filiale e devoto.

Alberto Marvelli aveva aderito all’Azione Cattolica entrando a far parte del gruppo fanciulli cattolici, quando aveva appena 12 anni, nel 1930, vi rimase fino alla morte, nel 1946.

Una lunga militanza, entusiasta, attiva, responsabile. A 15 anni il parroco gli affidò l’incarico di delegato aspiranti. Negli anni 1934-36 frequentò il gruppo studentesco cittadino, “P. G. Frassati” presso la parrocchia dei Servi, che svolgeva attività culturali, caritative, ricreative.

Fu chiamato poi nella “Federazione” di Azione Cattolica, cioè nel Consiglio diocesano, guidato allora dall’assistente don Giuseppe Garavelli e dal dinamico e battagliero presidente Luigi Zangheri, che gli affidò la Segreteria diocesana; nel 1935 fu delegato diocesano studenti e vice presidente diocesano. Il parroco di Maria Ausiliatrice, intanto, lo aveva chiamato a reggere la presidenza del Circolo di Azione Cattolica. Al momento della morte era anche presidente dei Laureati cattolici. Il presidente nazionale, Luigi Gedda, con nomina diretta, gli aveva dato l’incarico di delegato regionale degli studenti medi.

Alberto amava l’Azione Cattolica; la viveva intensamente; la diffondeva con entusiasmo. Aveva capito l’importanza, per un giovane, dell’appartenere ad una associazione comunitaria: vivere insieme l’esperienza di Dio e dell’apostolato era la certezza di non perdersi. Superando ogni individualismo aveva deciso di camminare in una associazione, nella quale poter esprimere la ricchezza personale in armonia con quella di tutti e sperimentare la dimensione comunionale della chiesa.

Com’era nel suo carattere Alberto non aveva mezze misure: capita l’importanza dell’Azione Cattolica, vi spese tutte le sue energie e il suo tempo libero. Anche lontano da Rimini, a causa degli studi, del lavoro o della vita militare, lavorava sempre per l’Azione Cattolica.

L’Azione Cattolica fu l’ambito principale nel quale Alberto educò la sua giovinezza alla generosità, all’impegno, alla santità. Ma non il solo: egli aprì la sua giovinezza a tutte le altre esperienze che l’associazionismo cattolico esprimeva: Fuci, Laureati cattolici, Conferenze S. Vincenzo, Società Operaia, ACLI. Diede le sue migliori energie a tutte le associazioni giovanili cattoliche di allora, superando le polemiche e le distinzioni esistenti tra esse, donando con piena generosità e letizia il suo cuore di apostolo e divenendo, anche in ciò, segno di unione e collaborazione. La partecipazione a Congressi eucaristici, come quelli di Firenze e di Faenza, a settimane di studio, come quella pro Oriente cristiano, a incontri nazionali per dirigenti GIAC, contribuiva in modo determinante ad allargare i suoi orizzonti di fede, di cultura e di apostolato. Ovunque si recherà, a Bologna, Milano, Torino, Treviso si inserirà sempre nell’Azione Cattolica e lavorerà instancabilmente partecipando a convegni, tenendo conferenze, promovendo associazioni parrocchiali, e anche gruppi in caserma. “Come giovane di Azione Cattolica è mio obbligo imperioso fare dell’apostolato continuamente e ovunque. L’esempio di S. Paolo, il suo infaticabile sforzo per convertire il mondo a Cristo, sopportando tanti dolori, deve spingere me a non temere qualche piccolo sacrificio”.

Il 2 maggio 1938 l’Azione Cattolica festeggia i 70 anni di fondazione. Alberto scrive: “Sono 70 anni da che è fondata l’Azione Cattolica o, meglio, la Gioventù di Azione Cattolica. Quanto cammino, quanti frutti, quale esercito imponente al servizio di Cristo, sotto la protezione della Vergine, agli ordini del Papa. Si, ai suoi ordini noi tutti sapremo combattere la buona battaglia, sapremo lanciarci alla conquista delle anime. Vittoriosi. Fiduciosi”. “Quanto noi giovani dobbiamo a questa Gioventù Cattolica, alle nostre associazioni, ai nostri Pontefici ! Tutto il nostro patrimonio spirituale, la nostra vera vita. E la difenderemo questa vita, perché è sacra, perché è l’unica che renda felici in Cristo”.

di Giovanni Bersani
“assiduo, impegnato, nell’atteggiamento di chi ha una viva serenità interiore, relatore preciso e documentato, con proposte concrete e atteggiamenti sempre responsabili. Nello stesso tempo era animatore tra i primi dei momenti di letizia che accompagnavano la nostra vita associativa: partecipando ai cori con la sua bella voce, suonando qualche strumento, sorridente e forte. Egli ha così dato a tanti giovani della nostra regione e di altre regioni negli incontri di formazione o di lieto svago, nei tanti convegni in cui è stato relatore o partecipe, il dono di una fede fresca e profonda, di una disponibilità piena al servizio comune”.

 

Preghiera e Azione

Alberto fu uomo dal carattere forte, deciso, portato all’azione, instancabile. “Agire sempre, sempre, non stare mai un attimo in ozio. Non perdere tempo” scrive nel Diario e fa sua una frase di Pio XI: “La vita non si può concepire senza azione se non come morte”. La sua passione per l’azione si esprime soprattutto nell’Azione Cattolica. La mole di lavoro che svolge in Diocesi, con ammirevole costanza e con entusiasmo che ignora stanchezza e sconforti, è straordinaria. Eppure non corre il rischio di tanti uomini d’azione, che vedono a poco a poco impoverita la loro vita interiore e disperdono, proiettati unicamente verso l’esterno, “gli aromi dell’interiorità”, perché egli aspira a “una spiritualizzazione delle azioni” e radica la sua attività nella preghiera e nella spiritualità dell’Azione Cattolica.

Rafforza la sua vita interiore nei ritiri e negli esercizi spirituali, nella meditazione quotidiana, nelle letture della Parola di Dio e delle vite dei santi, nella attività catechetica. Di fatto, della vita interiore fa l’anima del suo apostolato. Le parole che Paolo VI ha pronunciato ad un gruppo di laici impegnati, “Non esiste, non può esistere nessun apostolato senza vita interiore, senza preghiera, senza una perseverante tensione verso la santità… Siete tutti chiamati alla santità”, offrono una chiave per interpretare la figura di Alberto: fu un grande apostolo perché fu ricco di vita interiore. Non fu mai preso “dall’eresia dell’azione”, come si diceva ai suoi tempi, perché tutto riconduceva alla preghiera: “Preghiera continua, mentale e di intuizione: porre ogni nostra fatica, lavoro, divertimento sotto lo sguardo di Dio, affinché Egli sia sempre presente in noi. Sacrificarsi continuamente per il bene degli altri con gioia, serenità, amore; è un obbligo che abbiamo di ricambiare verso il prossimo ciò che Dio concede a noi”.

La sua preghiera era in piena sintonia con l’azione; non era evasione, ma impegno di vita. Possiamo dire che tutta la sua vita era preghiera, perché egli ”viveva in continua unione con Dio”, “tutta la sua vita era un atto di amore a Dio”. In Alberto preghiera e azione sono modalità diverse di un unico impegno di vita spirituale. Preghiera e azione si fondono nel compimento della volontà di Dio e della comunione con Lui: attraverso la preghiera partecipa all’essere e al progetto di Dio; attraverso l’azione partecipa all’agire di Dio nella storia. “Sapeva armonizzare l’amore di Dio con l’amore del prossimo”. Nella vita di Alberto non ci fu frantumazione o discontinuità, ma unità profonda. “Fra preghiera e vita apostolica intercorre una relazione dialettica, ossia un passaggio necessario dall’una all’altra: la vera vita apostolica porta alla preghiera; la preghiera autentica porta a collaborare all’opera della Redenzione”. Alberto era convinto che l’azione apostolica non fosse sufficiente per sostenere tutta la vita spirituale, che non basta lavorare per il Signore, ma bisognasse dedicare molto tempo alla preghiera. L’impegno costante della sua missione di apostolato si traduceva in attività orante, soprattutto nell’azione di grazie e nella domanda.

“Il carattere soprannaturale dell’apostolato esige dall’apostolo una conoscenza approfondita della Buona Novella e del Disegno di salvezza”. Alberto non possedeva della Sacra Scrittura e della Teologia una conoscenza solo teorica, ma personale e meditata. La Parola di Dio era viva in lui. Il Vangelo era sempre aperto sul suo tavolo di lavoro e di studio. La risonanza della Parola di Dio nella sua preghiera è riscontrabile continuamente. Lo stile della sua azione e della sua preghiera richiama lo stile di S. Paolo, le cui Lettere Alberto meditava continuamente e spiegava agli altri. Per questo riusciva a fare opera di discernimento nelle scelte concrete dell’agire apostolico. Alberto era abituato a vedere il mondo con lo steso sguardo di Dio; la preghiera lo predisponeva ad assimilare la sua volontà alla volontà divina. Molte volte nel Diario o nelle lettere ricorre questo abbandono alla volontà di Dio: “Sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà”. Quando gli viene comunicata la morte del fratello Lello, in Russia, commenta: “Nostro Signore ha voluto così. Sia fatta la sua volontà!”. E scrivendo a Marilena conclude “Amo troppo il Signore per ribellarmi alla sua volontà. Non mea sed tua voluntas fiat”. Nella preghiera Alberto santifica se stesso, penetra più profondamente nel mistero di Cristo e si prepara ad una autentica vita di apostolato; nell’agire apostolico, con libertà e generosità, realizza l’ unità interiore fra preghiera e azione, sotto la guida dello Spirito Santo. La sua azione apostolica scaturisce dal suo ricco mondo interiore; la sua sola “presenza” diviene portatrice e rivelatrice di valori, prima ancora che lui parli o agisca. “La sua parola era valorizzata dalla vita, che mai aveva deflettuto da quei principi che egli divulgava fra il popolo” così testimonia un suo amico. Per lui la “cosa principale era trasmettere Dio agli altri; fare apostolato; non pensava ad altro”.

UNA PREGHIERA DI ALBERTO
D’ora innanzi, o Gesù, voglio comportarmi in modo da non dover rimproverarmi, io cosciente, e sotto l Tua protezione, più alcun dolore ed offesa alla Tua Persona, Bontà e Misericordia infinita. Ho detto, o Gesù, “voglio” e questo “voglio” spero mantenerlo col tuo aiuto. Sia una continua Perfezione delle virtù, una spiritualizzazione delle azioni, una completa dedizione a Te, un sacrificio per Te, e necessario, Gesù, una ascesa verso l’alto. (marzo 1938 )

Un modello: Piergiorgio Frassati


Per essere aiutato nel suo cammino verso Dio, Alberto cerca modelli e testimoni di vita cristiana; desidera conoscere l’esperienza ed il cammino di uomini e donne, che hanno fatto delle loro vita dono a Dio e ai fratelli. Desidera confrontare la sua vita con la loro, per ricevere sempre nuovi stimoli alla santità. Ha certamente letto la vita di S. Domenico Savio, di don Bosco, di S. Gemma Galgani, di S. Francesco, di S. Benedetto, di S. Caterina da Siena, di S. Paolo, le Confessioni di S. Agostino. Inoltre ha letto vite di giovani esemplari, di cui era ricca la biblioteca della Federazione di Azione Cattolica: Guido Aquadro, il Capitano Negri, Franco Castellani, Giosuè Borsi.

Della vita di ogni santo Alberto sapeva cogliere lo spirito, che poi cercava di tradurre nella propria vita: “Imitare Gesù e i santi, ricopiare la loro vita santa”. Una particolare sintonia Alberto sente con Pier Giorgio Frassati, di cui legge più volte la biografia, scritta dal salesiano don Antonio Cojazzi, che così sintetizza il segreto della santità: ”In sintesi ecco il suo segreto: con fermo proposito di vivere sempre in grazia di Dio, conservava la volontà vigilante e tesa per opporsi ad ogni invito al male e per cooperare ad ogni invito al bene”

Nel marzo 1936 annota nel suo Diario. ”Domani compio 18 anni e propongo in tutto di essere più buono. Mi sforzerò di imitare Pier Giorgio Frassati”. E ancora, nel luglio 1938, “Sto rileggendo la vita di Pier Giorgio Frassati, che già mi fece tanto bene. Oh, se potessi imitarlo nella sua purezza, bontà, carità, pietà. E’ ben vero quello che dissero: la terra non era degna di lui. Ha bene imitato e seguito Cristo”.

Alberto sceglie come modello Frassati, se lo impone con tutta la forza della sua energica volontà. Intende imitarlo nella carità e nella fede, come pure nell’amore ai poveri e nell’impegno politico. Chi gli vive accanto non può fare a meno di avvertire questa tensione spirituale.

Daniele Arru, che ha fatto un breve studio compartivo fra i due santi, si chiede: ”Fu dunque frassatiano Marvelli ? Ed in quale misura ? Egli lo fu e lo fu perché fortemente volle esserlo, come desumiamo dal suo Diario. Quanto poi ai risultati, egli riuscì ad esserlo in modo così puntuale che sarei quasi tentato di dire che, per certi versi, riuscì perfino a superare – nel senso di sviluppare – il suo maestro”.

In realtà non si può parlare di superamento, perché non ha senso istituire paragoni in tale materia: ogni santo fa un’esperienza di Dio che si caratterizza in un certo modo, originale, irripetibile, pur nell’unico alveo della santità cristiana. Possiamo trovare tante note comuni, tante consonanze, ma diversi sono i tempi e le modalità.

Alberto visse in un momento storico straordinario: la disfatta bellica italiana, il ritorno alla democrazia, la guerra civile, il passaggio del fronte, l’immediato dopo guerra, la ricostruzione richiesero a lui uno speciale impegno nella storia, la necessità di misurarsi con una quotidianità a volte grigia, a volte turbolenta, sempre difficile. Ebbe modo di esprimere in maniera molto forte e ben visibile tutto il suo ardore di santità.

UNA PREGHIERA DI ALBERTO
Voglio riuscire, voglio tentare la via dei santi, Gesù, dammi Tu la volontà necessaria. Fammi la grazia di poter vivere una vita interiore più raccolta sconfiggendo tutte le tentazioni del mondo. Gesù, confido in Te, nella Tua infinita misericordia.

Innamorato dell’Eucarestia

Scrive sul suo Diario, nell’estate del 1937: “Da questo mese, o Signore, un’altra vita, la vera vita si inizia e desidero ad ogni costo seguirla. Aspirazione alla purezza, desiderio di apostolato, brama dell’Eucarestia, necessità di vita interiore, di raccoglimento, di studio, di santi e nobili propositi, di costanza nel bene, di spontaneità nella carica”. Numerose pagine del Diario ci danno la misura della sua vita interiore e indicano nell’Eucarestia, sentita come presenza viva di Dio nella storia del mondo, la fonte da cui attingere forza ed energia per l’instancabile impegno verso gli altri. “Tutto il mio essere è pervaso dall’amore di Dio, in quanto egli viene in me col suo corpo e con la sua anima e divinizza tutto il mio corpo, i miei pensieri, le mie azioni, le mie parole”. Quello dell’Eucarestia era tra i carismi particolari di Alberto. “Aveva il carisma dell’Eucarestia”. La spiritualità di Alberto è cristocentrica ed eucaristica. Aveva iniziato a ricevere l’Eucarestia ogni giorno, forse già a quindici anni; si confessava tutti i sabati, attendeva al servizio liturgico della Messa. A diciassette anni scrive nel Diario: “Oh ! se mi riuscisse di comunicarmi tutti i giorni !”. E a diciotto anni: “Oh Gesù. che cerco di ricevere tutti i giorni in me”. Aveva piena coscienza della grandezza del mistero eucaristico: dopo aver ricevuto l’Eucarestia si fermava a lungo in chiesa, in ginocchio, raccolto e immobile.

Alberto è innamorato dell’Eucarestia. Non c’è per lui gioia più grande sulla terra della contemplazione di Gesù, ricevuto nel proprio cuore. “Che cosa sono i divertimenti del mondo – scrive a dicianove anni – in confronto alla gioia che Tu procuri a chi ti ama ? Che cosa sono il piacere, il divertimento fittizio in paragone del puro e sublime benessere che uno prova contemplandoti e ricevendoti in se stesso, nel suo cuore ? Men che nulla”. Attraverso l’Eucarestia entra in profonda intimità con Cristo in una preghiera fatta di silenzio e di ascolto, che noi possiamo solo intravedere attraverso le parole del Diario.

L’intimità con Gesù eucaristico, la contemplazione della presenza reale di Gesù “ricevuto nel cuore” non diventa mai ripiegamento su se stesso, comodo rifugio dalle responsabilità, alienazione dalla storia. Alberto gode della presenza di Cristo, come dono inestimabile, guarda al divino come risposta ad una personale aspirazione alla pienezza, ma quando avverte che il mondo attorno a lui è sotto il segno dell’ingiustizia, della povertà, del peccato, allora l’Eucarestia diventa forza per intraprendere un lavoro di redenzione, di liberazione, capace di umanizzare la faccia della terra.

Tutta la sua vita è una testimonianza della forza promanante dall’Eucarestia, sostegno del suo impegno nella storia, a servizio dei fratelli. L’Eucarestia è dono, perché noi diventiamo il Corpo di Cristo, anzi perché noi diventiamo il corpo donato, sacrificato di Cristo. L’Eucarestia diventa “vera” nella misura in cui la nostra vita viene trasformata in dono, in servizio. Non è possibile dissociare l’amore all’Eucarestia dall’amore del prossimo.

“La luce che entra in me – scrive a vent’anni – con Gesù Eucarestia brilli sempre e faccia splendere il mio sguardo. Il fuoco che arde e mi consuma, l’ardore che mi brucia, I’amore che il Signore così grande mi infonde per lui e per il prossimo non diminuisca, non si affievolisca, ma s’ingigantisca senza fine, sempre continuamente”. “Gesù vive in me; Gesù è nel mio cuore; Gesù lascia il cielo per entrare nel mio indegnissimo corpo. Gesù dammi la tua volontà, Ia tua fermezza nei propositi, il tuo amore immenso per gli uomini e le loro miserie, il tuo senso totale e soprannaturale di apostolato”. E’ affascinato dalla presenza di Cristo, che “lo trasfigura”, “lo infiamma”, “lo rapisce”, “rende sublime la sua espressione”, “lo isola dal mondo circostante”. Parafrasando le parole di Paolo ai Galati, “Non sono io che vivo, ma è Gesù che vive in me”, Alberto scrive: “Devo agire considerando questa realtà: Gesù è in me”.

“Più volte entrando nella chiesa di S. Bartolomeo in Bologna al termine delle lezioni, fra mezzogiorno e mezzogiorno e mezzo – racconta Benigno Zaccagnini – lo vedevo accostarsi alla S. Comunione. Bisogna notare che Alberto arrivava da Rimini in treno, quindi era digiuno dalla mezzanotte, dopo aver fatto il viaggio e partecipato alle lezioni. Gli dissi: io non sarei in grado di fare altrettanto, e aggiunsi che tutto ciò mi sembrava eccessivo. sua risposta fu un sorriso: il sorriso che aveva lui, di una limpidezza che chiamerei da bambini”.

Contemplativo nell’azione

Alberto fu un contemplativo nel senso che tutta la sua vita era incentrata su Dio; Dio era l’aspirazione profonda del suo cuore, era l’oggetto della sua ricerca. La preghiera, sorretta da una fede intessuta di silenzio, di attenzione, di costante vigilanza, implica il coinvolgimento radicale di tutta la sua esistenza nel rapporto personale e irripetibile con Dio creatore e redentore. E’ la inabitazione trinitaria di cui parla la teologia: il Padre, il Figlio, lo Spirito prendono dimora in noi così che la nostra vita è la loro vita. Non siamo più noi che viviamo, ma è Dio stesso che vive in noi: “siamo vissuti” da Lui. Dio è più intimo dell’intimo di noi stessi; è la profondità ultima del nostro essere e del nostro esistere. Ma, prima che con le parole, Alberto pregava con la vita, poiché non ci può essere preghiera contemplativa se non come espressione di carità. I suoi colloqui con Dio sono sempre “incarnati” nella vita: in lui azione e contemplazione sono le due facce di una medesima esperienza.

Certo, Alberto non è un poeta, quello che gli interessa non è la bella forma… Tuttavia la “fiamma che lo brucia e lo consuma”, il dono di sé a Dio e ai fratelli, l’abbandono alla volontà del Padre, la passione per il Regno e insieme la gioia, l’umiltà, il bisogno di misericordia, al di la della quotidianità delle parole con cui sono espressi, riescono a suscitare forte emozione in chi si avvicini al Diario col desiderio di capire la forza di questa singolare interiorità: “Nel Diario non è difficile riscontrare vere esperienze mistiche, che fanno ricordare certi sfoghi mistici di S. Gemma Galgani, da lui amata tanto da conservarne un’immagine nel portafogli”.

Alberto, l’uomo d’azione, dinamico, attivo, sportivo, allegro, cordiale, dai mille impegni sociali e caritativi era un contemplativo non come i monaci nelle celle dei loro monasteri, ma per le strade del mondo, nella pienezza del suo essere laico, fra la gente, fra i poveri, nello studio, nel lavoro, nell’impegno sociale e politico.

“Madre mia, fiducia mia”. E’ l’invocazione alla Madonna che Alberto recitava più e più volte, facendo scorrere fra le dita la corona del rosario. Il suo amore a Maria è un tratto caratteristico della sua vita spirituale e della sua preghiera. Da quel lontano giorno, 8 dicembre 1934, quando, a soli seidici anni, scrive nel Diario: “Questa mattina ho consacrato il mio cuore alla Madonna Immacolata”, il suo cammino spirituale è posto sotto la protezione della Vergine Maria. Recitava ogni giorno il rosario con particolare devozione; lo recitava nella sua famiglia o in famiglie di amici, o in bicicletta, quando era solo.

“Ma soprattutto un cuore puro gusta le gioie dell’anima, dell’unione intima e continua di Dio, della contemplazione delle sue sembianze sotto forma del S. Sacramento: che mondo nuovo, formato di impressioni infinite per dolcezza e potenza, ma al medesimo tempo così certe della loro origine, mi si è aperto contemplando Gesù sacramentato. Io lo guardo e Gesù mi parla.” “Ogni qualvolta mi accosto alla S. Comunione, ogni qualvolta Gesù nelle sua Divinità ed Umanità entra in me, a contatto con la mia anima, è un accendersi di santi propositi, è come un fuoco che arde, il quale entri nel mio cuore, una fiamma che brucia e che consuma, ma che mi rende così felice. Allora mi abbandono tutto ad un colloquio intimo con Gesù; la mia umanità scompare, potrei dire, lì vicino a lui”. “Tutto il mio essere è pervaso dall’amore di Dio, in quanto Egli viene in me col suo corpo e sua anima e divinizza tutto il mio corpo, i miei pensieri, le mie azioni, le mie parole. Ebbene, sia sempre memore di questa presenza del Cristo in me, mai venga meno il mio proposito d’amore”.

La guerra

Il 1939 è l’anno tremendo in cui cala sul mondo la scure della seconda guerra mondiale. Vani gli appelli alla pace di Pio XII. Il 1° settembre alle ore 4,45, 56 divisioni germaniche, di cui nove corazzate, invadono la Polonia, dai Carpazi al Baltico e iniziano la loro manovra a tenaglia su Varsavia. Più di mille aerei germanici distruggono quasi tutta l’aviazione polacca con fulminei attacchi agli aeroporti e compiono selvaggi bombardamenti sulle città. Il 3 settembre, Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania.

L’Italia, benché impreparata ad affrontare il conflitto, entra in guerra un anno dopo, il 10 giugno 1940, forte dei travolgenti successi tedeschi contro Francia e Inghilterra.

Alberto condanna apertamente questa guerra, definendola “un momento catastrofico della vita sociale”; “non sembrava necessaria; si poteva e si doveva evitare”. Il 31 gennaio 1941 scrive: “Siamo in guerra da otto mesi. Tutti gli uomini parlano di pace, desiderano la pace, ma pochi sono quelli che, come il Papa, lavorano per essa, per mantenerla , per farla ritornare. Quante vite che si sacrificano, quante giovinezze versano il loro sangue, quanti dolori che si rinnovano !”. Con una intuizione di sapore profetico, date le strutture internazionali del tempo, Alberto è convinto che la guerra si potrà evitare in futuro solo se ci saranno organismi al di sopra delle nazioni che facciano rispettare il diritto e la giustizia: “Bisogna fondare il diritto nazionale ed internazionale su basi cristiane. Il Vangelo e le Encicliche pontificie devono essere la norma di vita non solo dei singoli, ma dei popoli, delle nazioni, dei governi, del mondo”. La causa profonda della guerra “è il nostro poco amore per Dio e per gli uomini. Manca lo spirito di carità nel mondo e perciò ci odiamo come nemici invece di amarci come fratelli, tutti redenti dal Cristo”.

Alberto è addolorato soprattutto perché la guerra si combatte fra nazioni, che hanno profonde radici cristiane: e appare come un tradimento della fede e della cultura cristiana.

“Bisogna ritornare a Dio, al Vangelo e ascoltare la voce del Papa”. La condanna della guerra, la lucida conoscenza delle cause, il dolore per le vite che si sacrificano, la speranza che esistono strade percorribili per il ritorno alla pace, aprono il cuore di Alberto ad una semplice e accorata preghiera: “Gesù, proteggi l’Italia, preservala da una rovina totale, e concedi che scenda presto la pace con giustizia per tutti i popoli, che la guerra sparisca per sempre dal mondo”. Queste parole sono segno di grande saggezza cristiana e di coraggiosa indipendenza di giudizio, indipendenza anche da quella parte di gerarchia, che in questi mesi appare soprattutto preoccupata di non compromettere gli equilibri col regime fascista.

LETTERA al fratello Lello, combattente sul fronte russo.
Carissimo Lello, il Signore va servito in ogni momento ed in ogni luogo con dedizione completa alla sua volontà, e con animo pronto a tutte le prove che ci manda: nell’umiltà, nella carità, nell’amore fraterno e nella preghiera cerca di superare gli inevitabili ostacoli che incontri in ogni momento della vita e gli inevitabili momenti di scoraggiamento. Il Signore è con te anche laggiù, anzi ti è particolarmente vicino e non ti abbandonerà. Nella preghiera quotidiana supero di un balzo i 4000 chilometri che ci separano e vengo da te, nella tua capanna, in ginocchio sulla terra russa, a dire insieme al Signore: Signore Iddio e Padre nostro che sei nei cieli, sia fatta la tua volontà, sia santificato il tuo nome, e se è nei tuoi disegni che io soffra accogli queste sofferenze e queste rinunce per la santificazione mia e dei miei compagni per il ritorno della pace nel mondo intero.

Alberto Militare

Conseguita la laurea il 30 giugno 1941, Alberto dovette subito presentarsi, il 5 luglio, al Distretto militare di Forlì per la visita medica. Risultato “abile e arruolato”, tre giorni dopo, il 7 luglio, partì alla volta di Trieste, presso il 5° Centro automobilistico, 6° Compagnia, per prestare il servizio militare, in qualità di allievo ufficiale. Il distacco dalla famiglia e dagli amici fu doloroso, anche perché la lontananza del luogo e la disciplina militare non gli avrebbero più consentito una costante e continua presenza a Rimini. Alberto sentiva di dover vivere quella “chiamata alle armi” con dignità, convinto che fosse un dovere da compiere nel migliore dei modi.

Già dal suo primo arrivo in caserma, Alberto si era preoccupato di avvicinare, tra reclute e graduati, membri di Azione Cattolica e quanti altri fossero disposti a dare testimonianza di fede con coraggio, organizzando incontri formativi e partecipando alla Messa. Fra questi il caporal maggiore furiere Silvio Carretta, col quale Alberto instaurò un buon rapporto di amicizia. Anch’egli giovane di Azione Cattolica collaborava all’apostolato instancabile di Alberto, firmando i permessi per coloro che desideravano essere liberi, la domenica mattina, per recarsi alla Messa. Così ogni domenica mattina la comitiva, con a capo Alberto, si ingrossava.I fedelissimi erano soltanto una decina, ma Alberto non si scoraggiava; faceva opera di persuasione più con l’esempio che con la parola. Carretta riusciva ad ottenere permessi anche per il primo venerdì di ogni mese e per il giorno 24, consacrato a Maria Ausiliatrice, e tanto caro agli ex allievi dell’oratorio salesiano.

Ogni mattina la 6° compagnia andava a fare istruzione in una incantevole località, a due chilometri dalla caserma, denominata il “Cacciatore”. Lassù i militari facevano scuola di comando, esercitazioni tattiche, scuola guida e, a turno, per difficili sentieri di montagna, dovevano portare sulle spalle pesanti mitragliatrici. Quando il turno toccava ad un compagno, fisicamente gracile, Alberto gli si accostava quasi di nascosto, per non farsi notare, caricava sulle sue spalle il peso della mitragliatrice, allineandosi poi tra i compagni, come se nulla fosse e saliva; arrivato sulla vetta, deponeva il pezzo a terra e, senza aspettare ringraziamento, ritornava al suo posto.

Un giorno un compagno di caserma si ammalò di febbri malariche: si chiamava Tata Devoto, era un giovane giudice di tribunale, intelligentissimo, ma conduceva una vita sregolata e immorale. Quando le sue condizioni peggiorarono, fu portato in ospedale. Alberto ogni sera lo andava a trovare, sacrificando per tre mesi tutte le ore della libera uscita; gli procurava tutto ciò di cui aveva bisogno, gli imbucava la corrispondenza, lo confortava. Tata guarì e, senza che Alberto gli chiedesse nulla, si accostò ai sacramenti, dopo tanti anni, e cominciò a condurre una vita più retta. Alla fine del corso, quando salutò Alberto, aveva le lacrime agli occhi.

Questo era lo stile di apostolato di Alberto: mettersi accanto, servire, testimoniare.

Congedato da Trento il 3 dicembre 1941, per una circolare del Ministero, che prevedeva non più di tre fratelli sotto le armi, viene di nuovo richiamato, come sergente, nel marzo 1943. Viene inviato a Treviso, nella caserma di Dosson.

Anche a Treviso Alberto continua il suo intenso apostolato in caserma e in parrocchia. In pochi mesi riesce a far cambiare molte cose: vince la bestemmia e l’immoralità, risveglia il senso della fede nel cuore di molti; costituisce un gruppo, che chiama “Raggio”, che lo segue nell’impegno della vita cristiana. Il 7 giugno scrive a Zangheri degli importanti successi raggiunti nel campo dell’apostolato: “Sono stato a trovare una sezione aspiranti molto numerosa; poi sono stato in associazione per la commemorazione del settantacinquesimo del Azione Cattolica. Il raggio caserma funziona bene e il Signore lo benedice. Pensa: solo nella nostra caserma ne ho trovati cinquanta fino ad ora”.

Essendo l’istruttore e il responsabile della educazione dei soldati riesce a ottenere che nessuno più bestemmi. Arriva anche a rimproverare con parole di una semplicità disarmante il colonnello della caserma, ateo e bestemmiatore incallito: “Quando Lei bestemmia offende non solo Dio, ma anche tutti i cristiani e tutti gli uomini, perché tutti sono figli di Dio e inoltre ne va di mezzo anche la sua dignità; sarebbe contento lei che io dicessi a suo papà o mamma quello che lei dice a Dio?”. Così ottenne che non bestemmiasse più. Il suo saluto per tutti era: “Sia lodato Gesù Cristo”. Seguendo il suo esempio soldati e ufficiali cominciavano ad affollare la Messa domenicale e ad accostarsi alla Comunione.

Don Antonio Zanotto che spesso si recava a confessare rimaneva ammirato dalla partecipazione attenta e attiva di tutti, guidati da Alberto che stava vicino all’altare. Nel pomeriggio della domenica Alberto aveva preso l’abitudine di guidare in parrocchia un gruppo dai sessanta ai cento commilitoni: ascoltavano un pensiero spirituale di don Antonio, ricevevano la benedizione; seguiva un incontro di riflessione su varie tematiche guidato da Alberto e un momento di svago, a cui partecipavano anche i parrocchiani, giovani e adulti. Questa urgenza di testimonianza e di apostolato nasceva da una ricca vita interiore che egli continuava ad alimentare anche tra i disagi della caserma. La sua giornata iniziava alle ore 7 del mattino; alle 13, incurante dei due chilometri che separavano la caserma dalla chiesa parrocchiale e dell’obbligo del digiuno dalla mezzanotte, imposto dalle regole canoniche, si recava a ricevere la Comunione. Durante il cammino leggeva l’Osservatore Romano” o recitava il rosario. Solo alle 3 del pomeriggio finalmente pranzava.

della recluta Giuseppe Baffoni.
Mi avvicinai a lui, chiesi il suo nome; mi disse che era di Rimini e si chiamava Alberto Marvelli. Le sue parole mi riempirono l’anima di profonda commozione. Da quel momento, fino alla fine del corso allievi ufficiali, fummo amici inseparabili. Quella sera stessa uscimmo insieme. Passeggiando mi suggerì i primi doveri del buon soldato. Andammo insieme a fare una visita alla chiesa del Sacro Cuore, poi ritornammo in caserma. Quando la tromba suonò il silenzio, Alberto già mi aveva insegnato a fare la brandina. Ma tutta la notte mi sorvegliò, perché rimanessi incolume da quegli scherzi di caserma, che tanto turbano e sconfortano nei primi giorni di vita militare.

Rimini sotto le bombe

“Il 1 novembre 1943 diciotto cacciabombardieri inglesi, divisi in tre squadriglie rovesciano su Rimini – praticamente indifesa e priva di rifugi sicuri – una valanga di bombe da levante a ponente. Sono colpiti il parco locomotive, la stazione ferroviaria, alcuni quartieri della marina e del centro. Bilancio dell’incursione: 92 morti e 142 feriti”. E’ l’inizio di un martirio che durerà fino al 21 settembre 1944 con 396 incursioni aeree e 15 bombardamenti navali, con un totale di 607 morti tra la popolazione civile. “Saranno 10 mesi di straziante agonia. Miseria. Fame. Sequestri. Saccheggi. Vessazioni. Rastrellamenti. Vendette. Il 98% dei fabbricati risulterà distrutto o danneggiato”. I bombardamenti, fra il 27 e il 30 dicembre, sono i più pesanti e riducono Rimini ad una città morta. Non vengono risparmiati ospedali e case di cura, nonostante i contrassegni ben visibili; né i monumenti storici della città. Il bombardamento del 29 gennaio 1944 distrusse anche il Tempio Malatestiano. La gente sfolla dalla città; molti si fermano nei paesi di periferia, altri fuggono più lontano. Anche la famiglia Marvelli sfolla a Vergiano, una collina a 5 chilometri da Rimini

Alberto comincia una intensa opera di assistenza morale e materiale agli sfollati e un continuo pellegrinare in bicicletta da Vergiano a Rimini, dopo ogni bombardamento, per portare aiuto, ovunque ce ne sia bisogno. Se qualcuno doveva soffrire, ecco, era pronto lui; ma che gli altri fossero lasciati liberi! Questo desiderio di bene per gli altri e, se mai, di sofferenza per sé, non lo troviamo solo scritto nelle sue note di qualche anno avanti: lo scriveva ogni giorno con la vita, che aveva un eroico tono quotidiano. Dopo ogni bombardamento, Alberto era il primo a correre in soccorso: sempre presente là dove il pericolo era maggiore; piombava sulla città fumante e si prodigava per soccorrere i feriti, incoraggiare i superstiti, assistere cristianamente i moribondi, sottrarre alle macerie quelli che erano rimasti o bloccati o sepolti vivi, aiutare i feriti, mettere in salvo le masserizie. Era un impegno dei giovani di Azione Cattolica. Il presidente diocesano Luigi Zangheri raccoglieva i giovani disponibili per inviarli a portare soccorso nelle zone della città più colpite dai bombardamenti.

“Distribuiva ai poveri tutto quello che aveva e che riusciva a raccogliere” dice la signora Eva Manuzzi Capelli. Alberto si recava dai contadini e negozianti sfollati, che avevano messo in salvo la loro merce. Comperava, pagando del suo, ogni genere di viveri. Poi con la bicicletta carica di sporte andava dove sapeva che c’era fame, malattia, bisogno. Non aspettava che altri chiedessero, era lui a scovare i casi di bisogno, nelle grotte, nei rifugi, nelle soffitte o nei casolari dispersi nella campagna. I racconti della sua generosa cordialità sono ancora carichi di commossa gratitudine.

Insisteva presso la mamma perché desse la loro roba a chi ne aveva maggiormente bisogno. Così furono regalati materassi, coperte, pentole. Donava tutto perché i bisogni e le povertà che vedeva accanto a sé, non gli permettevano alcun attaccamento alle cose. Donò la sua bicicletta e tutte quelle del centro diocesano di Azione Cattolica, che servivano per la propaganda, ad operai perché potessero recarsi al lavoro. Era riuscito a rimediare tubetti di mastice, allora introvabili a Rimini, e li distribuiva agli operai e agli amici che avevano necessità di usare la bicicletta: unico mezzo di trasporto in quell’epoca, per la quale però era impossibile trovare camere d’aria e copertoni.

Donò reti, materassi, pentolame e tutto l’arredamento della Casa dei ritiri di viale Ariosto, col consenso di mons. Emilio Pasolini, direttore della casa. Donò le sue scarpe, i suoi vestiti, la sua coperta di lana. Non ebbe misura nel donare, perché le necessità erano smisurate. Un giorno si presentarono in casa due soldati italiani che erano fuggiti e cercavano di raggiungere l’alta Italia. Uno era senza scarpe, perché non aveva avuto il coraggio di toglierle ai morti, incontrati per via. Alberto guarda le proprie scarpe, poi i piedi del soldato e dice “gli possono andar bene”. Quella sera la madre se lo vide tornare a casa con un paio di vecchi zoccoli.

La sorella Gede, allora tredicenne, racconta: “Durante l’occupazione tedesca faceva la spola fra Vergiano e Rimini per servizi dei sinistrati e degli sfollati ritornando a casa a sera; e trovava sempre persone che l’attendevano per avere il suo aiuto, ma non ricordo di averlo mai sentito sbuffare o lamentarsi. La mamma mi diceva che tutte queste occupazioni non lo distoglievano dal suo impegno di vita spirituale e che non andava a riposare senza aver recitato il rosario, inginocchiato accanto al letto; come non lasciava mai la S. Comunione”.

E non fu la sola volta!

La Linea Gotica

Per impedire l’avanzata delle truppe alleate verso la pianura padana e la conseguente occupazione del Nord Italia, Hitler aveva predisposto la fortificazione di una linea naturale di difesa che attraversava l’Italia da Pisa a Rimini, la cosiddetta “linea gotica” (Gotenstellung) o “linea verde” (Grüne Linie). “All’esecuzione delle opere concorsero quindicimila italiani, arruolati a forza, e due mila Sloveni.

Nel dicembre cominciano i micidiali rastrellamenti di uomini da inviare in Germania per la produzione bellica o da impiegare per le opere di fortificazione sulla linea gotica.

In questa situazione Alberto sente di essere in pericolo; soprattutto teme la deportazione in Germania, perché gli impedirebbe di continuare la sua opera di carità verso gli sfollati.

Pensa di andare a lavorare nell’organizzazione Todt, alle dipendenze dei Tedeschi. Ne discute a lungo in famiglia con la mamma, che sulle prime è contraria. Per Alberto, entrare nella Todt non significava collaborare con i Tedeschi ma tentare di impedire la deportazione di tanti giovani, tentare di salvare molte vite e cercare di fare in modo che i Tedeschi non attuassero il loro piano di demolizione totale delle ville sul mare, per far posto a fortificazioni antisbarco.

Alla fine del 1943 o all’inizio del 1944 Alberto entrò nella Todt. Non gli fu difficile essere accettato, per la sua conoscenza della lingua tedesca e per la sua laurea in ingegneria; anche il nome Mayr della madre ebbe, forse, il suo peso. Ebbe subito un ruolo direttivo e un “lasciapassare” per i lavori. La sua posizione gli avrebbe permesso di muoversi con libertà, di continuare la sua opera di assistenza agli sfollati e di salvare innumerevoli vite. Quando sapeva di “retate”, riusciva a far fuggire molti giovani. Ad altri procurava documenti e lasciapassare, facendosi garante davanti ai Tedeschi. Sono tanti gli amici che aiutò servendosi di questa sua posizione. Ad uno evitò la deportazione; a un altro fece rilasciare un lasciapassare perché potesse riprendere il lavoro a Bologna.

Una attività così intensa non poteva non destare sospetti. I Tedeschi capirono ben presto qual era il suo “lavoro”. Nel luglio viene preso con altri 16 giovani e rinchiuso nella corderia di Viserba per essere spedito al Nord. Alberto non si dà per vinto e organizza la fuga con l’aiuto dell’amico Zangheri. Fingendo di salutarlo per l’ultima volta, gli fa scivolare in mano un timbro della Todt, con cui vengono falsificati gli ordini di rilascio per i giovani catturati. Una volta fuori dalla corderia Alberto si prodiga per far fuggire tutti gli altri, che nel frattempo erano stati portati alla stazione di S.Arcangelo e caricati su un treno diretto al Nord. Mentre presenta i documenti falsi ai Tedeschi e intavola le trattative per liberare i compagni, improvvisamente suona l’allarme, seguito da un mitragliamento aereo. Nella confusione generale tutti riescono a fuggire e a far ritorno alle loro case o ai rifugi.

Alberto tornò a Vergiano dopo tre giorni con i vestiti laceri, sporco di fango, con i piedi sanguinanti, con gli zoccoli fatti di corda. Le scarpe le aveva date date a un compagno che doveva andare più lontano! Le circostanze oggettive imponevano maggior cautela, ma Alberto non si lasciò scoraggiare e continuò la sua opera di aiuto, soprattutto ai giovani. Nonostante una feroce decreto tedesco, che minacciava la fucilazione a chi avesse ospitato renitenti alla leva, Alberto, nell’estate del 1944, accolse nella sua casa di Vergiano due giovani dell’ultima classe richiamata alle armi dalla repubblica di Salò: Fausto Lanfranchi e Giorgio Placucci.

Più difficile fu l’intervento a favore di Giovanni Conti, arrestato mentre gironzolava sul lungomare per godersi una giornata di sole. “Quando Alberto lo seppe riuscì – Dio solo sa come – a convincere i tedeschi che lavoravo per la Todt, così mi liberarono dal sotto scala in cui mi avevano rinchiuso e dove ero stato costretto, non potendo stare in piedi perché il soffitto era basso, a sedermi su casse di bombe a mano!”.

Sfollato a San Marino

Nell’estate del 1944 il fronte alleato avanza; sul fiume Foglia, vicino a Pesaro, a soli trenta chilometri da Rimini, viene attaccata la linea gotica. Tutti gli operai della Todt, alla fine di agosto, fuggono; assieme a loro, molti capi tedeschi.

Il 3 settembre le prime pattuglie alleate, composte da Canadesi e Greci, entrano in Riccione. Gli sfollati sulle colline attorno a Rimini non si sentono più sicuri, per le bombe che cadono anche in periferia, per i mitragliamenti e le schegge dei proiettili antiaerei. Tutti guardano alla vicina repubblica di San Marino. Per la sua neutralità poteva offrire garanzie di salvezza.

Anche la famiglia Marvelli prese la strada di San Marino; caricarono sulle biciclette, condotte dai fratelli, masserizie e vivande, sistemarono la mamma sul carrettino, trainato dall’asinello dell’ortolano Luigi Melucci. Presero alloggio in un camerone del collegio Belluzzi. Dopo aver messo al sicuro la famiglia, Alberto fece più volte il tragitto Rimini-San Marino, a piedi, per condurre al sicuro altre famiglie e la fedele donna di casa, Rosina, che non aveva voluto abbandonare subito la villa.

All’assistenza agli sfollati Alberto dedicò tutte le sue energie. Collaborava con il Commissario della Repubblica e si recava più volte coi camion a Forlì per prelevare generi alimentari, affrontando i rischi dei continui bombardamenti. Sotto le granate, che scoppiavano continuamente, nell’aspra lotta dei due fronti così vicini, col carretto, trainato da un impaurito somarello, percorreva a uno a uno i paesi vicini, per cercare farina, marmellata, latte. Era lui che organizzava la distribuzione dei viveri. Assieme al cugino Zanardi, aveva chiamato a raccolta molti giovani di Azione Cattolica, anch’essi sfollati a San Marino, invitandoli ad essere disponibili e pronti a rispondere a tutte le esigenze della popolazione, veramente priva di tutto, sottolineando che questo era il modo migliore, in quelle circostanze, per fare apostolato.

Un giorno, mentre si intratteneva col gruppo dei suoi ragazzi, iniziò un violentissimo mitragliamento aereo. Alberto non esitò un attimo; ordinò a tutti di gettarsi a terra, mentre lui restò in piedi, con coraggio, per vedere meglio donde veniva il pericolo e così salvare la vita dei suoi amici. Ormai lo circondava una leggenda di “invulnerabilità”; non era la prima volta che bombe e proiettili lo sfioravano da vicino; una volta ebbe anche il tascapane forato da una scheggia. Fu sempre in prima fila nell’opera di assistenza e di apostolato.

Distribuiva il pane inviato da Forlì e la minestra calda, procurava un materasso a chi dormiva sui sassi, regalava tutto quello che possedeva o che poteva reperire presso generosi amici; con amore assisteva gli ammalati e sempre riusciva a trovare parole di incoraggiamento e di conforto a chi riceveva brutte notizie: la perdita di persone care o la distruzione della propria casa. Ogni sera nei cameroni del Collegio Belluzzi o nelle affollatissime gallerie era un po’ il papà di tutti. Iniziava a recitare ad alta voce il Rosario e tutti lo seguivano; poi si ritirava per riposarsi, per poche ore, nel convento dei Francescani.

“Verso il 20 di settembre gli alleati si accostano al Borgo Maggiore. La popolazione è tutta nelle gallerie. Dall’alto della città si vedeva la lotta. I tedeschi avevano nel Borgo un carro armato che consumò fino all’ultimo la sua potenza bellica; dai crepacci della roccia due o tre ufficiali resistevano ancora. Gli alleati si avvicinarono dal lato della chiesa dei Salesiani. Finalmente il carro armato si fermò, dopo aver scoperchiato e sconquassato tante abitazioni. Anche il fuoco dai crepacci cessò. E ancora gli alleati non si avvicinavano sicuri !”. Alberto, con altri giovani – è il racconto di Eva Manuzzi Cappelli – si presentò con una bandiera bianca agli inglesi, pregandoli di smettere mitragliamenti e bombardamenti, perché i tedeschi ormai se ne erano andati”.

Assessore per ricostruire

Al momento della liberazione Rimini è allo sbando: senza guida e senza autorità pubbliche operanti. In questa situazione la “resistenza riminese” dà un forte contributo, sostituendosi validamente alle autorità pubbliche non ancora costituite. Il 23 settembre si insedia in Rimini la Giunta del Comitato di Liberazione Nazionale, che riunisce anche i poteri del Consiglio Comunale. E’ voluta dal Comando militare alleato, che elegge pro-sindaco il partigiano Arnaldo Zangheri, in attesa del ritorno del socialista Arturo Clari, ultimo sindaco democraticamente eletto prima della dittatura fascista. Il 4 ottobre il dott. Clari prende possesso della sua carica e conferma la giunta municipale, formata da “elementi dei vari partiti antifascisti d’avanguardia”, che nel frattempo vanno lentamente ricostruendosi, con sedi proprie, iscritti, organizzazioni, per preparare attivisti e dirigenti.

Fra gli assessori della Giunta c’è Alberto Marvelli; non è ancora iscritto ad alcun partito; non è stato partigiano; ma tutti hanno riconosciuto e apprezzato l’enorme lavoro di assistenza agli sfollati nel circondario di Rimini e nella Repubblica di S. Marino. E’ giovane, ha solo 26 anni; ma la concretezza nell’affrontare i problemi, il coraggio nelle situazioni più difficili, la disponibilità senza limiti lo hanno reso popolare e meritevole di assumere un compito così impegnativo.

Non vi sono solo case da ricostruire, servizi da ripristinare, vettovaglie da provvedere, ma c’è una città che deve ritornare a vivere “democraticamente”; che è ancora percorsa da “sentimenti di violenza, di intolleranza o moti inconsulti”. Perciò il nuovo Sindaco invita tutti a lavorare “per una progressiva e lenta opera di ricostruzione con costanza e tenacia, in una atmosfera di pace, di tranquillità e di solidarietà umana”.

Per rispondere ai bisogni più urgenti della città, la Giunta comunale costituisce una Commissione edilizia comunale, alla cui presidenza viene posto l’assessore ing. Alberto Marvelli.

Poi viene affidata all’ing. Marvelli anche la Commissione comunale alloggi. Lo scopo di tale commissione è di “disciplinare la assegnazione degli alloggi in città e frazioni, comporre vertenze fra proprietari e affittuari, requisire appartamenti, eseguire accertamenti di alloggi disponibili”.

Su un piccolo block notes Alberto aveva scritto a matita: “Servire è migliore del farsi servire. Gesù serve”. Con tale spirito di servizio affronta gli impegni che gli vengono affidati.

L’ing. Marvelli lavora con rapidità e decisione; con chiarezza e trasparenza nella gestione delle enormi somme di denaro che deve assegnare ai sinistrati, con senso di giustizia ed equità.

Quello degli alloggi da liberare, dei fabbricati da riparare, degli sfollati da sistemare fu certamente il problema più grave che la Rimini del dopo guerra dovette affrontare.

Alberto Marvelli fu l’anima di questo immenso e difficile lavoro. La sua competenza, ma soprattutto la concretezza e la rapidità, lo portavano a cogliere immediatamente le situazioni, a trovare la soluzione e a metterla in atto. Ebbe validi collaboratori, ma era sempre lui in prima persona a ideare, a proporre, a dirigere.

Per la sua serietà professionale ed il suo generoso impegno è ammirato e stimato da tutti.

Nel giro di pochi mesi viene nominato ingegnere responsabile del sezione locale del Genio civile, commissario per la sistemazione del fiume Marecchia, presidente della locale sezione della Società Montecatini, questo perché “dopo il turbine della guerra egli fu il solo ad apparire, dinanzi agli occhi di tutti, come il più vero portatore di una reale fiaccola di bontà e di amore che invitava a reprimere gli odi”. (Sono parole del dott. Flavio Beltrami, allora Segretario Comunale). Alberto era sempre pieno di fervore e dinamismo; era solito non fermarsi mai; aveva per ogni cosa una sua idea da esporre o un suggerimento da dare; non arretrava dinanzi alle difficoltà; sapeva pure delicatamente imporsi nei suoi contatti diretti con gli organi responsabili e con ogni autorità.

“Essere i realizzatori della carità di Cristo nel mondo. Siamo tutti fratelli, figli di uno stesso Padre. La carità si propaga con la vita, con la bontà. Bisogna possedere sempre la carità per irradiarla verso gli altri. Come sto io in fatto di carità? La carità ha il suo centro e la sua vita in Cristo. La carità è sempre in un cuore in proporzione dell’umiltà. La carità diventa istintivamente zelo, comprensione dei bisogni altrui, necessità di dare agli altri, di dare i doni che Gesù ha dato a noi. Sofferenza dei dolori altrui. Lo zelo non fondato sulla carità è sterile e non può esistere. Il bene spirituale dei fratelli è superiore al mio interesse e bene materiale”.

Racconta Piera Ceccarelli: “Una mattina, da Vergiano dove eravamo sfollati, sono venuta a Rimini all’Ufficio alloggi. Appena arrivata mi sono trovata fra tanti che questionavano per essere ricevuti. Passato il mezzogiorno un usciere dice: ‘Si chiude, tornate domani. Mi sentivo disperata, avevo fatto tutta la strada a piedi, mi misi a piangere. Ma Marvelli dall’Ufficio disse:’ Perché chiudete ? Non va via nessuno. Ricevo tutti.’ Poi uscì dall’ufficio, mi vide, mi venne incontro, mi disse: ‘Perché piangi ?’ e mi fece una carezza. Fra le lacrime gli esposi il mio caso. ‘Ma non siamo qui per aiutarti ? Perché ti disperi? Vedrai che tutto si aggiusterà: va a Vergiano tranquilla; torna fra una settimana”.

 

Un cristiano in politica

Quando nel 1945 o, forse, nel settembre del ‘44, Benigno Zaccagini gli propose di lavorare nel partito della Democrazia Cristiana, Alberto rispose “che non aveva obbiezioni di principio, che ci avrebbe riflettuto, ma che si sentiva già molto impegnato in un’azione più concreta ed immediata sul piano della carità”. Ci pensò alcuni giorni; probabilmente ne parlò col Vescovo, come era suo stile. Infine accettò. Non avvertiva fratture tra l’attività nell’Azione Cattolica e l’impegno politico a cui veniva chiamato, perché credeva che solo attraverso l’impegno politico potessero incarnarsi nella prassi e informare la società che si andava ricostruendo quegli ideali di solidarietà e di giustizia che la chiesa predicava e che lui ben conosceva dalla lettura delle encicliche pontificie.

Alberto inizia il suo lavoro nel partito in un momento difficile; all’iniziale collaborazione con le sinistre si era sostituito un duro scontro ideologico. La lotta fra i partiti era assai accesa; la contrapposizione delle idee radicale; spesso degenerava in risse vere e proprie: si abbattevano i “pulpiti” degli oratori, si tagliavano i fili degli altoparlanti… Lo scontro frontale avveniva inevitabilmente tra i due partiti di massa, la D.C. e il P.C.I.. Anche in questa atmosfera, così poco favorevole al dialogo, Alberto sapeva trovare l’atteggiamento giusto: appassionato assertore dei principi ispiratori del suo partito, si teneva però lontano da ogni faziosità. Gli altri compagni di partito subivano il fascino della lotta, quasi che essa garantisse la solidità dei principi. Alberto attribuiva, invece, massimo valore ai principi e considerava spiacevoli incidenti le lotte che ne conseguivano. “Al ritorno dai comizi – così testimonia un amico – ci si scambiava opinioni e esperienze. Ciò che più colpiva nell’atteggiamento di Alberto era la serenità con cui riferiva episodi di grave faziosità degli avversari, i quali erano giunti anche a vie di fatto, tentando di impedirgli di parlare”.

Fare comizi non era un “mestiere” facile. Si doveva procedere tra fischi, urla, provocazioni di ogni sorta. Spesso si finiva per venire alle mani. Il fiducioso ottimismo di Alberto, espressione di un atteggiamento positivo di fronte agli uomini e alle cose, intuiva sempre la strada giusta per riuscire a comunicare. In un comizio tenuto a Spadarolo, gli “avversari” rovesciarono la tribuna preparata per l’oratore; Alberto non si scompose, con calma rimise le cose a posto e riuscì a farsi ascoltare. A S. Ermete, durante un altro comizio, riuscì a frenare il chiasso di un gruppo di scalmanati e terminare il suo discorso.

La sua parola era valorizzata dalla vita, che mai aveva deflettuto dai quei principi che egli divulgava fra il popolo. Per questo non aveva nemici, neppure in politica. La politica per lui era amore, era l’estrema conseguenza della carità sociale e strumento di verità”. Egli metteva in pratica ciò che, nel lontano 1927, parlando ai Fucini, Pio XI aveva detto: “Il campo politico è il campo di una carità più vasta, la carità politica”. La vita di Alberto, la sua testimonianza, gridavano più forte di ciò che diceva con le parole.

Anche le riunioni interne della D.C. non erano facili: c’era un’acuta tensione fra gli anziani, provenienti dal vecchio Partito Popolare e i giovani, provenienti dalle associazioni cattoliche. Ancora una volta l’autorevolezza morale di Alberto diventava un insostituibile elemento di equilibrio.

Giovanni Ardissone, durante un corso di Esercizi spirituali della Società Operaia, ebbe modo di parlare con Alberto di questo “mondo nuovo” a cui bisognava andare incontro e che richiedeva generosità, donazione, sacrificio, rinuncia, ossia “una gara di virtù”. “Era una gioia scambiare con Marvelli questi grandi ideali, per sentire dentro di noi l’entusiasmo di affrontare ogni fatica e disagio, perché le parole di Gesù prendessero forma in noi con una donazione totale di servizio di professione e famiglia, ossia di laici, in un mondo laico da consacrare”. Il nuovo impegno politico – nel frattempo era stato nominato anche membro del Comitato provinciale D. C. – lo portò a rallentare il suo lavoro in Azione Cattolica e a lasciare la presidenza della associazione della sua parrocchia.

Il suo gesto non venne compreso da tutti.

“Egli intervenne – ci racconta Masinelli – e precisò che agiva in quella maniera perché pensava che erano i tempi in cui i cattolici dovevano impegnarsi uniti; che in quel momento lavorare nella D.C. era il modo migliore di esercitare il suo apostolato e aggiungeva che quando si fosse accorto che lavorare nella D.C. non era più utile per il mondo cattolico, avrebbe lasciato la politica”. Così Alberto ci dà la chiave di lettura del suo impegno nel partito: esercitare un apostolato.

“Sempre sereno e tranquillo, sempre equilibrato e imparziale, sempre pronto ad ascoltare le tesi altrui prima di esporre la propria, sempre attento ed incoraggiante, qualunque fosse l’interlocutore, egli partecipava a tutte le riunioni di partito apportando un contributo concreto di iniziativa, di suggerimenti e spesso anche di spunti polemici. Ricordo in particolare il suo interesse per i problemi ai quali egli si riteneva moralmente impegnato: innanzitutto i problemi della ricostruzione della città, poi i problemi della cultura, i problemi del lavoro e, non ultimi, i problemi dell’assistenza. Per tutti questi problemi egli aveva sempre la proposta di una soluzione incisiva e chiara, suggestiva nel suo significato di ordine morale, ma sempre congeniale al suo pensiero. Era nemico della retorica e delle frasi fatte, anche se consacrate dall’uso comune. Di tutte le cose voleva andare alla radice, di tutte le situazioni cercava il significato esatto senza lasciarsi frastornare dal chiasso delle montature propagandistiche”.

La società operaia

La Società Operaia era stata fondata a Roma il 3 settembre 1942 nel Convento dei S.S. Giovanni e Paolo dal prof. Luigi Gedda, presidente nazionale dell’Azione Cattolica, per il quale Alberto nutriva una profonda stima. Nasceva in seno all’Azione Cattolica giovanile, non come organizzazione nell’organizzazione, ma come movimento collaterale di spiritualità.

Leggiamo nello Statuto: “La Società Operaia è un’associazione laicale, fondata per corrispondere a tre esigenze fondamentali del messaggio evangelico: 1. sviluppare una vita di pietà in una spiritualità incentrata nel mistero dell’Agonia di Cristo nel Getsemani; 2. consacrare dei laici autentici all’apostolato, cioè dei laici come laici in risposta alla chiamata di Cristo, che invoca nuovi operai per mietere la molta messe nei campi dell’umanità secondo le esigenze della Chiesa; 3. realizzare per iniziativa dei singoli operai, opere dirette ad onorare Dio e fare la sua volontà per il bene dei fratelli”.

Alberto si sentì subito in sintonia con questa spiritualità che avvertì come l’eco delle sue esperienze più profonde: aveva sempre consacrato e offerto la sua vita come Gesù nel Getsemani e in questa sua accettazione senza riserve della volontà del Padre aveva trovato il segreto di ogni sua opera, di ogni suo atto di generosità e di eroismo. Se sfogliamo le pagine del Diario, troviamo la perfetta conformità della sua vita interiore e apostolica con le caratteristiche della spiritualità getsemanica.

Nel ‘43 chiese di entrare a far parte della società operaia.

In tutti gli avvenimenti della vita Alberto riconosce la volontà di Dio e vi si abbandona con serenità e fiducia. Dopo gli studi liceali aveva desiderato entrare all’Accademia militare, ma non era stato accettato per un lieve difetto alla vista: “Il Signore ha disposto diversamente”. Non si era perso d’animo: avrebbe lavorato di più all’Università, perché quello era il campo che la volontà di Dio gli affidava. A Marilena, nel 1944, scrive che “supplica il Signore perché la quotidiana preghiera, non mea voluntas sed tua fiat, non rimanga lettera morta ed una vuota sterile formula, ma sia invece il principio vitale informatore di tutta l’esistenza”. La volontà di Dio è luce che illumina la strada; è segno di un amore che spinge ad amare; fuori della volontà di Dio non ci può essere nulla. In questa prospettiva anche il dolore per Alberto non è mai un castigo o una disgrazia, ma diventa un mezzo per una più profonda comunione con Dio: “Accettare il dolore come inviato del Signore per provare la nostra fede e per affinare le nostre virtù morali”. Ha un profondo desiderio di unirsi a Gesù sofferente: “Visitami pure con la Croce, Gesù, che sono lieto di aiutarti a portarla”. “Gesù io tendo a Te, voglio vivere per Te, patire e soffrire per Te, come Te”. A volte lo sente come espiazione: dovremmo accettarlo con grande riconoscenza, perché ci permette di saldare quei conti che i nostri peccati hanno aperto con la Giustizia divina: “almeno questo!”.

E’ il dolore degli altri che gli spezza il cuore; vorrebbe soffrire al posto loro. Lo chiede con insistenza e sincerità al Signore: “Desidererei soffrire io per tutti loro”, è angosciato soprattutto davanti alle sofferenze della mamma: “Fa soffrire qualsiasi cosa, la morte non esclusa, a me, piuttosto che a lei!”. “…E’ impossibile dare un dolore a Gesù che ci si presenta alla mente in agonia, sulla croce”. Dalla meditazione del dolore di Gesù nel Getsemani trae la forza per vivere la sua coerenza: “Solo così potremo in qualche modo alleviare il dolore di Gesù, cooperare alla salvezza delle anime, compartecipare alla grazia che ci impetra col suo dolore”. “Gesù ha tanto patito per me, è morto sulla croce, è stato flagellato, incoronato di spine, è stato schiaffeggiato; tutto questo ha patito per salvarmi; ed io che cosa faccio per ringraziarlo di tutto questo, quali sacrifici faccio, quali mortificazioni mi impongo, per patire in piccolissima parte quello che ha patito Gesù?”

Alberto teneva sul comodino, insieme al Vangelo, un volume del Getsemani; lo meditava e, a matita, sottolineava alcuni brani o scriveva frasi di commento. A pag. 164 sottolinea questa frase: “…La meditazione del Getsemani prepara l’anima a sopportare il dolore e trasforma anche questo in una sorgente di letizia soprannaturale”. Accanto annota: “Tutto questo da molto tempo io vivo e lo sento”. Alberto non viene mai prostrato dal dolore, anzi nel dolore lascia trasparire una letizia, una gioia profonda, che ha le sue salde radici nella fede. A pag. 208 sottolinea queste frasi: “Chi soffre e prega sente crescere in sé il Regno di Dio, e sente la sua anima più ricca, più libera, più lieta che mai”. Accanto alle parole di Gesù nel Getsemani, “Passi da me questo calice”, egli scrive: “Gesù ha provato ripugnanza, per vincere le nostre ripugnanze”. Per quanto inspiegabili, avverse e strazianti possano essere le vicende umane, Alberto non si turba, ha nel cuore una visione ottimista degli avvenimenti, che gli viene dalla ricchezza di chi crede in Dio e a Lui si affida.

Non è, la sua, una accettazione passiva della volontà di Dio, di chi si piega perché non vede alternative. Non solo è piena di slancio e di fiducia, ma diventa contemplazione delle sofferenze di Cristo, con viva partecipazione e interiore sofferenza.

“Io lo guardo e Gesù mi parla. Gesù mi mostra i suoi dolori, le sue gioie, la bruttezza del peccato, il grande male che è nel mondo, la necessità di lavorare per la salvezza. Io lo guardo, ed ecco che vedo Gesù flagellato, coronato di spine, crocifisso, bastonato: sono i peccati che si commettono in quel momento. E’ trapassato dalla lancia; forse è il mio pensiero che è sviato e gli ha procurato quel dolore. E’ sputacchiato; forse un pensiero terreno vuole sconvolgere quelli spirituali. E così per me, così per tutti. Gesù soffre, soffre sempre dolorosamente. No, non voglio peccare, non voglio sviarmi, voglio amarti, Gesù, come la tua Mamma, voglio soffrire io ciò che Tu soffri”.

Presidente dei Laureati Cattolici

La prima riunione del gruppo si tenne nel settembre del 1945 e l’ultima, presieduta da Alberto, nel settembre del 1946. In un solo anno il gruppo fiorì in molteplici attività.

Alberto si mette subito all’opera; ha accanto a sé un gruppo di validi collaboratori. Inizia, attraverso conferenze e “tavole rotonde” un serio lavoro culturale, orientato ad una presa di coscienza del significato umano e cristiano della libertà e della democrazia. Promuove manifestazioni culturali a livello cittadino, che rispondono agli interessi e ai problemi più sentiti nel momento. Il denominatore comune è sempre la visione cristiana dei fatti culturali e l’ispirazione cristiana della vita sociale: “La funzione sociale della proprietà”, “La funzione sociale della cultura”, “La missione della scuola”, il corso di religione su “il Regno di Dio”. Tra gli oratori: Giuseppe Lazzati, Giorgio La Pira, Guido Gonella, Raimondo Manzini, don Sergio Pignedoli e il Vescovo mons. Santa. Nel giro di pochi mesi si avvia una seria revisione della cultura sociale e politica, in chiave evangelica, frantumando vecchie ideologie e aprendo nuovi orizzonti.

Le riunioni si tenevano nel vecchio Vescovado, poi nella sagrestia di S. Croce in via Serpieri, ogni sabato; il primo sabato del mese si faceva l’ora di adorazione, sempre guidata dal Vescovo. Non solo gli ottanta iscritti, ma tutti i laureati di Rimini partecipavano questi incontri: avvocati, professori, medici, magistrati.

Alcuni degli incontri promossi dai laureati rimasero memorabili e lasciarono larga eco nella stampa locale. Quando padre Riccardo Lombardi, nell’aprile del ‘46, tenne una serie di riflessioni sul tema “Il cristianesimo e l’Italia”, i partecipanti furono tanti che si dovette trasferire l’iniziativa dal Ridotto del teatro alla chiesa di S. Agostino. Alberto curava l’organizzazione con molta precisione, occupandosi perfino degli altoparlanti che allora erano difficili a reperire e proprio per questo diventavano il bersaglio preferito dei sabotaggi degli avversari. Qualche volta poteva capitare che i comunisti andassero per cercare lo scontro e finissero per applaudire l’oratore! Successe al dottor Luciano Vignati che aveva parlato sui problemi della medicina e dell’igiene pubblica. Alberto glielo fece notare con un sorriso di gioia.

La conferenza dell’avvocato Oreste Cavallari, grande invalido di guerra, sul tema “il mondo d’oggi” ebbe grande successo, tanto che fu poi pubblicata in un fascicolo, a cura dei laureati cattolici.

“Non bisogna portare la cultura solo agli intellettuali, ma a tutto il popolo”: i Laureati devono assumersi questo impegno. Nell’inverno del ‘45-’46, memore dell’analoga iniziativa di Igino Righetti nel 1923, Alberto dà vita ad una Università popolare, coll’intento di divulgare la cultura, coinvolgendo tutta la comunità cittadina. Organizza la pasqua degli operai, con un nuovo metodo di approccio; non si invitano gli operai a venire in chiesa, ma si va da loro, all’uscita dai cantieri, dalle fabbriche e dai laboratori femminili. Si forma un capannello, si ascolta, si discute. Alberto impegna in questa attività tutti i laureati cattolici. Nell’estate del ‘46 alla ripresa del turismo, Alberto, che nel Diario aveva denunciato i pericoli morali e spirituali della vita di spiaggia, sente che bisogna agire anche in questo settore. Nasce così la Settimana cristiana del mare: si organizzano incontri con i turisti negli alberghi della riviera. Nel periodo estivo i laureati fanno la lettura della Lettera ai Romani e Alberto commenta la seconda parte della lettera, dimostrando una profonda conoscenza della teologia di San Paolo.

La guerra ha lasciato sulla strada molti relitti umani: barboni, poveri, sbandati, senza tetto. Anche a loro, anzi soprattutto a loro, va annunciato il Regno di Dio. Sull’esempio di quanto aveva fatto Giorgio La Pira a Firenze, Alberto organizza a Rimini la Messa e la mensa del povero. Si incominciò la domenica 9 dicembre 1945. Non c’erano mezzi; la cassiera del gruppo era preoccupata, ma Alberto con sicurezza aveva detto: “Cominciamo con la questua in chiesa, poi vedremo”. A volte, il deficit era considerevole. Alberto ripeteva, stringendosi nelle spalle: “Verranno, i denari! Di che cosa ha paura? Dia pure! I soldi vengono sempre”.

La S. Messa si celebrava alle 9.30 a S. Croce. Al gruppo dei laureati si univa il gruppo, sempre più numeroso, di persone che la guerra aveva ridotto ai margini della società, bisognose di tutto. Alberto, vicino alla balaustra o a metà della chiesa, in modo che tutti potessero sentirlo, guidava la Messa. Le sue parole erano sempre molto coinvolgenti, piene di conforto e di speranza. Capitò anche che un morfinomane rinunciasse alla fiala di droga mettendola nella borsa della questua. Dopo la Messa i laureati si fermavano con tutti, a prendere nota delle necessità di ognuno; Alberto distribuiva i buoni mensa con quella sua grazia schiva che rendeva tanto accetto il dono. Molte persone che seguivano la Messa uscivano di chiesa con gli occhi lucidi. “E’ un santo che prega” diceva l’avvocato Bonini e monsignor Santa: “Sapeva insegnare ai poveri a pregare”. Più tardi alla mensa, nei locali delle ACLI, Alberto serviva i commensali, scodellando minestre e dimostrandosi felice solo quando li vedeva soddisfatti nelle loro necessità. Mangiava con loro, li ascoltava, dialogava, prendeva appunti delle loro richieste.

A Pasqua si organizzò il pranzo per tutti i poveri, che ormai erano diventati centinaio. Alla fine del pranzo Alberto disse alcune parole che commossero tutti: “Noi laureati non siamo quelli che donano; i veri donatori siete voi che con le sofferenze e gli stenti della vita ci insegnate come si soffre e ci permettete di manifestarvi il nostro amore”. Ormai i poveri erano diventati tutti suoi amici: avevano trovato in lui un aiuto sincero e disinteressato.

“L’ingegner Marvelli che presiedeva, – ci racconta mons. Renzini parroco di S. Croce – dava alle adunanze un tono di ambiente famigliare dove ognuno si trovava a suo agio e poteva esprimere il proprio pensiero con piena libertà, trattando sempre argomenti di attualità alla luce della fede. Tutti i maggiori esponenti della cultura della città di Rimini si riunivano per studiare i loro problemi e risolverli nella comune comprensione, col contributo delle varie competenze, in un clima di fraternità e amicizia”.

“I suoi poveri erano sempre con lui – dice l’amico Benigno Zaccagnini – alimentavano la sua fame e sete di giustizia, caratterizzavano il suo stile di vita: austero, concreto e sobrio. Nessuna traccia in lui di ambizione, ma una disponibilità totale di donarsi dimenticando se stesso. Negli ultimi serviva il Signore. Erano con lui specialmente nei momenti della preghiera, del suo dialogo con Dio al quale si elevava portando nel cuore in intima comunione e vicinanza i fratelli più cari”.

Vocazione al matrimonio

Marilena era la primogenita dei nove figli dei signori Angelo e Delfina Aldé di Lecco. Alberto l’aveva conosciuta durante una vacanza al mare. Lei aveva quindici anni, lui era alle prese con l’esame di maturità. Tra i due era subito nata una forte simpatia, che Alberto aveva tardato a manifestare per la sua naturale riservatezza e perché desiderava chiarire prima a se stesso la sua vocazione. Un incontro col suo padre spirituale, don Antonio Bartoli, nell’agosto del ‘39, lo aiuta a fare chiarezza: “Si, alcuni pensieri mi attraversano la mente, pensieri di orientamento della mia vita di domani, orientamento che mi sembra deciso, ma che, a volte, mi lascia incerto. Anche in questo, Signore, illuminami. Voglio farmi santo, però; per questo sono pronto a rinunciare a qualsiasi sogno od affetto terreno, per essere tutto di Dio” (24 agosto 1939).

Con lo sguardo rivolto verso questa meta, sente che Marilena può diventare la sua compagna di vita: “Se Marilena dovrà essere la mia compagna di vita, prego il Signore che sia come la mamma o come la signora Delfina, con spose simili si può intraprendere sicuri il viaggio della vita, certi di arrivare al termine più buoni, più edificati, più perfetti, più santi” (12 settembre 1939). Di lei riempie le sue preghiere, a lei corre il suo pensiero quando nel ‘40, solo a Milano, sente la nostalgia della casa e degli amici. Le lettere che le scrive sono piene di premura e tenerezza: “Prega Marilena anche per me, sii unita al Signore: la fede sincera, unita alla purezza, danno uno splendore speciale al tuo sguardo, ed emanano un profumo inconfondibile”. “Come stai ? Desidero per te ogni bene e tante grazie da Dio per la tua vita presente e futura. Ogni mattina lo chiedo al Signore. Quasi ogni mattina posso fare la S. Comunione, ed anche stamani ho ricevuto il Signore. L’ho pregato umilmente per te, affinché ti protegga e ti conceda una vita serena e per quanto è possibile felice”.

Marilena però non risponde alle sue lettere con la stessa regolarità. Alberto se ne dispiace e intuisce che il suo sentimento non è ricambiato con uguale intensità. Tra i due, però, continua la fraterna amicizia di sempre: “Col passare degli anni – confessa Marilena – mi accorsi che l’amicizia si stava trasformando in affetto nei miei riguardi da parte sua, ma io, pur conservando e stimando l’amicizia, non ho corrisposto al suo affetto. Ammiravo la sua virtù, la sua pratica religiosa eccezionale, diversa dagli altri, ma non mi sono sentita di corrispondere alle sue attenzioni al mio riguardo”.

Prima del settembre 1942 la determinazione di Alberto per il matrimonio era certa e Marilena la sposa designata, purché consentisse. Seguì però un periodo di incertezza.

Evidentemente lunghe riflessioni, preghiere ed autorevoli consigli orientarono Alberto verso un altro genere di vita. Confidò solo alla mamma e alla signora Delfina, madre di Marilena, la sua nuova decisione, e che credeva “di essere chiamato dal Signore per un’altra strada”, certamente il sacerdozio, se non la vita religiosa. Il Vescovo mons. Santa, dopo una conferenza di Alberto ai giovani, alludendo alla vocazione sacerdotale, gli disse “ingegnere è ancora in tempo!”. Egli rispose con un sorriso, che alcuni interpretarono in senso affermativo. Un giorno il Vescovo lo incontrò per via, con la bicicletta carica di pacchi e, riferendosi alla precedente domanda, gli chiese: “Ebbene, ingegnere ?”. “Ora lavoro un po’ per la ricostruzione” rispose. Il Vescovo lo amava e lo stimava grandemente: vedeva in lui tutte le doti di un ottimo sacerdote.

Tornò al primo progetto nell’estate del 1946, a due mesi dalla morte, forse per consiglio di padre Riccardo Lombardi, col quale ebbe un colloquio nel maggio dello stesso anno. Fu un colloquio importante per il suo orientamento vocazionale; ce lo conferma lo stesso padre Lombardi.

Così decise di parlarne a Marilena e poi di scriverle una lunga lettera, in data 27 luglio 1946, spedita per espresso, scritta alle 3,30 del mattino, dopo una lunga estenuante giornata di lavoro e di impegni. Nonostante il tono contenuto, vi si avverte potente la forza di un sentimento che aveva messo radici profonde.

LETTERA DI ALBERTO A MARILENA
“Cara Marilena, ho riflettuto alla mia dichiarazione dell’altra sera e desidero confermarti ancora, di rispondermi in perfetta libertà, senza tener conto delle situazioni contingenti, ma solo del tuo sentimento e della possibilità quindi da parte tua di amarmi, così come sono, con i miei difetti e le mie miserie. Non pensare agli anni di attesa, perché invero è da lunedì che ho sentito di nuovo battere il mio cuore per te, dopo che ti ho rivista sempre bella e con gli occhi un po’ mesti, ma tanto buoni. Quando nel settembre del 1942 dicevo alla tua mamma di non pensare più a te, credevo che il Signore mi chiamasse per un’altra strada, ed ho atteso la chiamata pensando a te come a una sorella. Potrebbe essere questa la chiamata che sta risvegliando l’amore ? Non pensare neppure a quello che può dire mia madre, perché anche a lei dissi, nel settembre del 1942, la mia decisione, ed ora non ho detto nulla, in attesa di informarla quando ci fosse qualche certezza. Nessun altro poi sa qualcosa, eccetto la signora Delfina che peraltro non può obbligarti, e non vuole, ad un passo contrario al tuo sentimento ed alla tua inclinazione. Ascoltane i consigli dettati dalla sua sapienza e dal suo affetto, ma interroga il tuo cuore. Più volte io stesso, quando mi confidava le sue preoccupazioni per te, ebbi a dirle che al cuore non si comanda, e che le vie degli uomini sono tracciate in cielo, ma esigono la nostra volontà per attuarle. Infine non ti faccio fretta per la risposta: col passare degli anni ho imparato ad attendere le tue lettere anche per molti mesi. Scrivimi pure quando credi, quello che senti, con tutta sincerità e lealtà; sono forte abbastanza per non scoraggiarmi, ho pazienza sufficiente in caso per attendere ancora ! Amo troppo il Signore per ribellarmi o piangere su quella che evidentemente sarebbe la sua volontà, ed infine amo te tanto, che desidero solo la tua felicità, a costo anche di miei sacrifici e rinunce. Tuo Alberto”.

La lettera non è solo una dichiarazione di amore, ma vi si legge il rispetto per Marilena di decidere in piena libertà, e un atto di amore alla volontà di Dio, che saprà accettare qualunque sia la risposta.

La lettera non ebbe risposta.

L’ultima giornata terrena

Aveva iniziato la giornata di quel sabato 5 ottobre ricevendo l’Eucarestia nella sua parrocchia alle ore 10,30. Aveva trascorso la mattinata in ufficio fra pratiche, problemi e gente da ricevere. Nel pomeriggio aveva tenuto un comizio a Miramare; poi era passato alla sede dei laureati in Santa Croce. Ad adorazione terminata – era il primo sabato del mese e i laureati partecipavano alla adorazione guidata dal Vescovo – incontrò alcuni amici. La signorina Massani gli consegnò un assegno che monsignor Montini aveva mandato alla diocesi per le attività dei Laureati Cattolici. Alberto lo mise in tasca con l’intenzione di “girarlo” alla cassiera del movimento. Si fermò ancora qualche minuto rammaricandosi che non si fosse lavorato molto per le elezioni.

Volò di corsa verso casa. Sulla piazzetta della Chiesa di Maria Ausiliatrice si fermò a parlare con l’amico Pasquale Montevecchi, concludendo con il consueto ottimismo: “il bene avrà sempre il sopravvento sul male”.

A casa mangiò in fretta; doveva tenere l’ultimo comizio a S. Giuliano a Mare. Non fumò neppure la solita sigaretta. Salutò in fretta la mamma sulle scale. Saltò sulla bicicletta. Erano le ore 20.30. Passò da un amico che doveva andare con lui; poiché non era pronto gli disse che l’avvrebbe preceduto per dare all’amico Masinelli le istruzioni sul seggio per la mattina seguente. A duecento metri da casa, superato l’albergo “Stella polare”, fu investito da un camion militare, che ritornava sulla destra dopo aver sorpassato un filobus in sosta alla fermata. Il camion, che andava a folle velocità, lo colpì al capo con il gancio della sponda laterale, scaraventandolo contro il muretto di cinta di una villa.

I passeggeri del filobus vedono agghiacciati la scena e chiamano soccorso. Immediatamente il dottor Gaddi lo fa trasportare dal filobus stesso fino alla fermata di via Pascoli dove si trova la Casa di cura “Villa Assunta”. Alberto non ha ferite, ma ha perso conoscenza, per il forte colpo alla testa. Masinelli accorre subito e lo assiste amorevolmente, accorre il parroco don Travaglini, che gli amministra l’Unzione degli infermi. L’infermiera Lina Tordi ha ancora viva la scena: “Il dott. Contarini arrivò in due minuti; mi fece preparare una iniezione di adrenalina, che non servì a nulla. Gli ho sfilato il fazzoletto dal taschino, ne è uscita anche la corona del rosario. Lo lasciammo nella camera del pronto soccorso. Continuava a fare un rantolo, ma già il polso non c’era più”. Gli fu praticata anche la respirazione artificiale. Inutilmente.

La mamma accorse subito con il fratello Giorgio e lo assistette con coraggio e fortezza eccezionali, durante le due lunghe ore di agonia fino alla morte, che avvenne senza che Alberto riprendesse conoscenza. Racconta la maestra Frangipane: “Morì fra le braccia della madre, che in quella circostanza mostrò una fortezza eroica”. Quando anche l’ultimo respiro cessò, in una angoscia senza lacrime, mormorò: ”Perché, Signore ?”. Agli amici che venivano rivolgeva frasi spezzate: “Alberto è morto”. “Lei che ha tanta fede, mi può spiegare perché è successo questo?”.

Poi si fece accompagnare a casa per prendere gli abiti per rivestirlo.

Fu subito allestita la camera ardente. “Alberto, vestito di bianco, con l’aspetto di un dormiente: era serenissimo”. “Conservava l’abituale franco sorriso”. Tutta la notte fu vegliato dagli amici e da tutti quelli che avevano saputo la triste notizia. Piangevano e pregavano.

Di ritorno dal Convegno di Azione Cattolica a Imola, si fermarono anche il presidente nazionale della GIAC, Luigi Gedda, e l’assistente mons. Federico Sargolini. Gedda volle vedere la camera di Alberto, come l’aveva lasciata la sera prima: sul comodino la Bibbia ed il libro di meditazione “Getsemani”. Nel vestito, che portava nel momento dell’incidente, l’ufficio della Madonna e il santino ricordo degli esercizi spirituali di Rho. Il giorno dopo la camera ardente fu allestita nella chiesa dei Salesiani. Centinaia e centinaia di persone, di tutti i ceti, la visitarono: dal vecchio sindaco socialista, ai politici, agli amministratori, agli amici, ai poveri.

Intanto la città veniva tappezzata di manifesti che esprimevano il dolore per la perdita della sua irrompente giovinezza e elogiavano le sue virtù umane e cristiane. Anche la cellula comunista di Bellariva scrisse: “I comunisti di Bellariva si inchinano riverenti e salutano il figlio, il fratello che tanto bene ha sparso su questa terra”.

Il funerale si svolse il martedì 8 ottobre alle ore 15 nella chiesa dei Salesiani. C’era tutta Rimini. Non fu un funerale, ma un trionfo. La bara fu portata a spalle dagli amici dalla chiesa al cimitero, con un corteo che si estendeva per circa tre chilometri. Al passaggio della bara si abbassavano le saracinesche dei negozi; le campane delle chiese suonavano; la gente ai lati della strada si inginocchiava e piangeva. Qualcuno toccava la bara con le mani o con altri oggetti o fazzoletti, quasi a volerne conservare più a lungo il ricordo. Alcune mamme incitavano i bimbi, che tenevano in braccio, a mandare baci verso la bara. Fra la folla molti i poveri; alcuni, disperati, dicevano: “Chi ci aiuterà adesso?”. Al momento dell’ultimo saluto degli onorevoli Carlo Salizzoni e Raimondo Manzini, sul largo piazzale di viale Tiberio, molti singhiozzavano.

Fu sepolto al cimitero di Rimini nella tomba della famiglia Rastelli, con una semplice lapide, su cui era scritto: “Alberto Marvelli operaio di Cristo 21-3-1918 – 5-10-1946”.

del Prof. Luigi Gedda.
Il ricordo di Alberto mi accompagna nella vita come testimonianza di quella giovinezza nuova che la Chiesa esige per i tempi nuovi. Per la nuova civiltà occorrono giovani che conoscano la bellezza degli anni verdi, ma anche la precisa responsabilità di produrre fiori di virtù e frutti di opere. Una gioventù serena di mente, ardente di cuore, forte di volontà; con il corpo agile, sano e puro. Alberto offre testimonianza di questa giovinezza per la quale è bello sacrificarsi e nella quale è doveroso credere come nella più splendida certezza per un domani cristiano.

Una Luce che non si spegne

Nonostante la naturalezza e la spontaneità del suo modo di fare, tutti avevano riconosciuto, anche quando era ancora in vita, che Alberto aveva un carisma particolare. La sua fama di santità non si manifestò solo dopo la morte. Il suo educatore, il canonico Baravelli, diceva che “attirava tutti con la sua parola” ottenendo più di quanto otteneva lui stesso. “La sua fama di santità – affermava Zaccagnini – era già diffusa fra quanti lo conoscevano quand’era ancora vivente”. E così altri testimoni. “In vita ebbe fama di giovane esemplare e tutti lo stimavano senza distinzione”. “Durante la vita godeva dell’ammirazione di tutti come giovane cristianamente esemplare”. “Lo sentivo più in alto, vicino a Dio”. Dopo la sua morte viene spontaneo a molti pregarlo e invocarlo; chiedere grazie, aiuto, intercessione. Il maestro Montevecchi “prega sempre Alberto con i suoi scolari”; il fratello Giorgio “lo venera per l’integrità della sua vita”; monsignor Benazzi: “Ogni giorno io lo prego”; il cugino Giorgio: “Da anni uso rivolgermi a lui nei momenti difficili”; e il signor Buccari: “Lo prego tutte le sere”. E così tanti altri. Alcuni asserivano di aver ricevuto grazie e favori per intercessione di Alberto. Agostino Neri conduceva i figli a pregare sulla tomba di Alberto al cimitero, ricorda che “vedeva fiori freschi e lumini accesi in continuità”. “La tomba era molto visitata e ornata di fiori; molte persone andavano a staccare le foglie di edera, cresciute accanto alla tomba, sperando di ottenere grazie”. Alla base di quella venerazione c’era il fatto che Alberto aveva esercitato in maniera straordinaria e costante tutte le virtù cristiane. La fama e la venerazione crescente è attestata da molti, che senza esitazione lo proclamavano santo.

 

di Giorgio La Pira
“A me pare che mettere sul candelabro questa lampada, risponda alle esigenze più pressanti della Chiesa, oggi: perché il problema delle generazioni nuove è, oggi, fondamentalmente, quello della loro vita interiore, del loro modo di unione con Dio, della vita della grazia: e non è tutto qui il senso della testimonianza cristiana di Marvelli? Mostrare questa testimonianza, situare sul candelabro questa lampada di gioia e di purità, perché faccia luce e testimoni una esperienza tanto marcata in mezzo al mondo d’oggi, non è cosa urgente, e quasi necessaria? La Chiesa potrà dire alle generazioni nuove: ecco, io vi mostro cosa è l’autentica vita cristiana nel mondo”

In città lo commemorano l’Azione Cattolica, i Laureati Cattolici, la Democrazia Cristiana, la Scuola tecnica industriale, la Giunta municipale. La figura di Alberto varca in breve i confini della diocesi e cominciano a parlarne giornali, riviste cattoliche e laiche, rotocalchi di grande diffusione, radio e televisione. La prima biografia, che l’autrice chiama Profilo, è del 1949, a soli tre anni della morte, quando già la fama era ben diffusa e consolidata.

Ormai si imponeva la traslazione della salma dal cimitero ad una chiesa cittadina: fu scelta la chiesa di Sant’Agostino, per la sua centralità. Espletato il lungo iter burocratico per ottenere l’autorizzazione, l’esumazione avviene al mattino del 5 ottobre 1974, la traslazione al pomeriggio dello stesso giorno, con sosta nella chiesa dei Salesiani.

Alla esumazione sono presenti il direttore del cimitero, alcune persone, gli operai e il fratello Carlo. “La salma fu trovata completamente mummificata – ricorda – così che io, che avevo preparato una piccola cassa di zinco per contenere le ossa, dovetti procurare una cassa di dimensioni normali per mettervi la salma rimasta intera e irrigidita”.

Nella chiesa di Sant’Agostino, è posto accanto alla tomba un album, sul quale i visitatori scrivono pensieri, invocazioni, preghiere. Sono moltissimi: uomini, donne, giovani; soprattutto molti giovani. Si trovano frasi interessanti: meriterebbero tutte di essere lette e meditate. Colpisce in modo particolare il tono confidenziale con il quale la gente si rivolge ad Alberto, anche chi non lo ha conosciuto. “Caro Alberto” è l’inizio più comune di ogni richiesta; “Ciao Alberto” è l’espressione più usata dai giovani. Con Alberto tutti sentono di poter instaurare un rapporto di cordialità e di amicizia: ispira simpatia, emana un calore fraterno. Confidano all’album le loro richieste, con la convinzione che Alberto risponderà generosamente alle invocazioni. Molti scrivono per ringraziare di essere stati esauditi, e ciò dà coraggio per chiedere ancora. Colpisce ancor più il fatto che la maggioranza delle richieste non è nell’ordine delle cose materiali, come il lavoro e la salute, ma nell’ordine delle grazie spirituali: la pace nella famiglia, che i genitori tornino a riunirsi, la vita interiore, la grazia di imitarlo, la serenità, la bontà, la fede. “E’ davvero consolante – commenta il senatore Gino Zannini, che ha letto con attenzione i vari album raccolti – che Alberto venga invocato per diventare più buoni, per avere più fede in Dio, per essere più forti d’animo nei momenti difficili, per ottenere sollievo nelle tribolazioni, per diventare simili a lui. E ciò non significa che nonostante le apparenze o le realtà negative del nostro tempo, gli uomini sentono la necessità di avvicinarsi a Marvelli per rinascere ad una vita migliore?”.

“La vita di questo Servo di Dio, che camminò per le vie di questo mondo partecipando in pieno alle sue vicende, ma sempre e dovunque teso verso ‘le cose di lassù’, giustamente è da ritenersi un dono del Cielo fatto alla chiesa, specialmente per la gioventù di oggi, che sente così vivo il bisogno di modelli autentici di vita cristiana, adattati alle condizioni del nostro tempo”, leggiamo nel Decreto sull’eroicità delle virtù di Alberto Marvelli, emanato in Roma il 22 marzo 1986

del Papa Giovanni Paolo II°
Il Papa Giovanni Paolo II, a Rimini in occasione del terzo Meeting dell’amicizia, il 28 agosto 1982, parlando ai giovani ha detto: “L’ingegner Alberto Marvelli, di cui è in atto il processo di beatificazione, ha lasciato, per gli altri, un modello e una chiamata”. E in occasione del 50° di fondazione della Società Operaia ha ricordato Alberto con queste parole: “Numerosi membri della vostra associazione – tra questi il pensiero va in special modo all’ingegner Alberto Marvelli, apostolo esemplare nella vita spirituale e nell’impegno civile – hanno mostrato come, nel mutare dei tempi e delle situazioni, i laici cristiani sappiano dedicarsi senza riserve alla costruzione del regno di Dio nella famiglia, nel lavoro, nella cultura, nella politica, portando il Vangelo nel cuore della società”.

Lapide commemorativa (Palazzo dell’Arengo)

Una guarigione miracolosa

“Era una calda giornata di giugno del 1990 – racconta il prof. Tito Malfatti, medico chirurgo specializzato in otorinolaringoiatria, primario dell’Ospedale Bentivoglio di Bologna. Stavo seduto comodamente a tavola con mia moglie e mio figlio per i pranzo fra le ore 14 e le 15 quando ho avvertito improvvisamente un dolore acuto all’anca sinistra che si irradiava verso la coscia. Dopo qualche ora il dolore si affievolì per riprendere poi bruscamente nei giorni successivi.

Pensai subito ad una artrite dell’anca: mi curai con i comuni anti-reumatici e antidolorifici, ma dopo poche ore dalla somministrazione dei farmaci il dolore riprendeva. Anche a riposo, a letto non avevo tregua. Zoppicavo vistosamente, il salire e scendere dall’automobile, curvando leggermente la schiena mi provocava un dolore insopportabile, mi erano preclusi sia la bicicletta che l’autobus. Mi sottoposi a diverse cure, ma senza alcun beneficio; consultai i migliori specialisti in materia: erano discordi su cure e interventi chirurgici, ma nessuno mi dava speranza di una completa guarigione. I muscoli della coscia si stavano atrofizzando e si notava già un assottigliamento rispetto all’altro arto. I dolori intanto continuavano immutati, la mia attività lavorativa si era molto ridotta, non riuscivo quasi più a stare seduto, l’automobile era divenuta per me uno strumento di tortura. Date le mie condizioni di inabilità la Direzione Sanitaria del mio ospedale mi concesse 1 mese di riposo per malattia. Ero molto preoccupato e non sapevo cosa fare”.

La diagnosi era una spondilosi  diffusa con diminuzione degli spazi fra la terza e la quarta vertebra lombare, con una cospicua ernia discale mediana e paramediana sinistra. Poco dopo una seconda ernia discale fu riscontrata tra la quarta e la quinta vertebra e ulteriori esami clinici evidenziarono una terza ernia discale.

“Confermo che, calando pian piano la fiducia nei rimedi umani, ho cominciato a rivolgermi con insistenza al Signore affinché mi aiutasse, permettendomi così di continuare il mio lavoro, che altrimenti avrei dovuto sospendere: fu con questo spirito che mi avvicinai nell’agosto 1991 alla tomba del Servo di Dio. La preghiera mia, di mia moglie e di mio figlio Gianluca fu molto persistente, anche perché, ritornati a casa, non abbiamo mai smesso di impetrare l’aiuto del Servo di Dio. E’ evidente che la preghiera fatta a Marvelli, aveva la finalità di ottenere da parte sua presso il Signore, la possibilità di vedere soddisfatta la mia richiesta, che non era quella di guarire dalla malattia, quanto piuttosto di essere liberato da quel dolore che mi impediva ogni attività e poter riprendere il lavoro”.

“Io cominciai a rendermi conto che le mie preghiere erano state accolte, quando a fine agosto-primi settembre avvertii la scomparsa graduale dei dolori che per più di un anno mi avevano afflitto e potei riprendere la mia attività senza avvertire dolori di sorta”.

La Consulta dei Medici  della Congregazione delle Cause dei Santi il 14 novembre 2002 affermò che la guarigione abbastanza rapida, completa e duratura, per quanto riguarda la sintomatologia,  era scientificamente non spiegabile.

Beatificazione

Alberto Marvelli viene beatificato il 5 settembre 2004, a Loreto (piana di Montorso), all’aperto, nella piana di Montorso, in occasione del grande Convegno dell’Azione Cattolica per il rinnovamento dei programmi e per l’incontro col Papa.
Vengono beatificati, assieme a lui, altri due esponenti di Azione Cattolica: lo spagnolo padre Pietro Torres e la giovane laica Pina Suriano.
E’ uno spettacolo indimenticabile: 300.000 giovani e adulti esprimono la loro gioia incontenibile, in un mare di colori, con canti, applausi, bandiere e cartelli.
Il rito della Messa suscita forti emozioni, come quando il Papa proclama i nuovi beati e cadono i veli che coprono le loro immagini.
Nell’omelia il Santo Padre tesse un breve profilo del nuovo beato.
Giovane forte e libero, generoso figlio della Chiesa di Rimini e dell’Azione Cattolica, ha concepito tutta la sua breve vita come un dono d’amore a Gesù per il bene dei fratelli. “Gesù mi ha avvolto con la sua grazia – scriveva nel Diario- non vedo più che lui, non penso che a lui”. Alberto aveva fatto dell’Eucaristia quotidiana il centro della sua vita. Nella preghiera cercava ispirazione anche per l’impegno politico, convinto della necessità di vivere pienamente da figli di Dio nella storia, per fare di questa una storia di salvezza. Nel difficile periodo della seconda guerra mondiale, che seminava morte e moltiplicava violenze e sofferenze atroci, il beato Alberto alimentava una intensa vita spirituale, da cui scaturiva quell’amore per Gesù che lo portava a dimenticare costantemente se stesso per caricarsi della croce dei poveri”.

Il Papa fissa la celebrazione della Festa liturgica del Beato Alberto al 5 ottobre di ogni anno.

Il corpo del Beato Alberto viene traslato in una nuova tomba monumentale, sempre nella chiesa di S. Agostino in Rimini, dove continua la venerazione dei fedeli, con sempre maggior afflusso.

Per la Canonizzazione di Alberto si attende un secondo miracolo, secondo l’attuale disposizione delle leggi canoniche.